NEL BELICE LA MAFIA AL SUO TERZO TEMPO
Mario francesce fu ucciso a Palermo il 26 gennaio 1979
Si occupò della mafia del Belice e di vari omicidi commessi negli anni 70
Evidenziò il sistema mafia- appalti -politica. Un uomo che scrisse la verità. La verità che in Sicilia spesso uccide
La costruzione della diga Garcia era stata progettata da un trentennio. Ma col prefetto Mori a Palermo, negli anni trenta, la mafia dovette accantonare molti dei suoi progetti, impegnata in una dura lotta di sopravvivenza
Mario Francese Giornale di Sicilia 21.9.1977
I boss spostano l’interesse dagli enti pubblici agli appalti delle super-opere nelle zone terremotate – Il col. Russo lasciò il comando del Nucleo Investigativo mentre indagava su delitti degli ultimi anni e rifiutò il trasferimento a Reggio Calabria
L’escalation dei delitti, dal 1974, ha coinciso col boom di finanziamenti statali e di opere pubbliche tra Garcia e le zone terremotate del Belice. Dopo la tragedia di Ciaculli del 30 giugno del 1963, le organizzazioni mafiose della Sicilia occidentale hanno fatto registrare il terzo tempo della loro continua e progressiva evoluzione. Una mafia “galoppina”, con settore preferito il contrabbando, fino al 1963, cioè una mafia che, attraverso appoggi elettorali, sfrutta al massimo le risorse cittadine (edilizia). I “patriarchi” si attestano nella città, abbandonando feudi e campagne e cominciano a tessere le fila di un’organizzazione funzionale a carattere interprovinciale.
Dal 1963, con la massiccia applicazione di misure di prevenzione, la mafia, sparpagliata in tutta la penisola, incomincia a darsi un volto nazionale. I boss, quelli con la “b” maiuscola, rimasti in sede, rivolgono la loro attenzione agli enti pubblici. Dal 1963, infatti, scatta l’era delle “municipalizzate” e degli enti di Stato: un pedaggio che la DC paga all’ingresso del PSI nella maggioranza governativa. E con il fiorire di enti pubblici, parallelamente, dilagano enti misti, cioè enti privati, con partecipazione finanziaria di enti pubblici. Un’epoca che ha un nome battesimale: quella dei “boss dietro le scrivanie”. Ed eccoci al dopo – 1970. Il dopo terremoto che ha devastato, nel 1968, molti centri del Belice, ha dato l’occasione alla grossa mafia di mutare obiettivi e di evolvere la sua già potente organizzazione. E’ una corsa sfrenata alle campagne e ai feudi. Ma i programmi non sono quelli di venti anni prima. L’ansia di valorizzazione di vaste plaghe deserte e di trasformazione di colture tradizionali è solo apparente. Le espropriazioni per la costruzione della diga Garcia hanno dimostrato come 800 ettari di terreno, per secoli incolto, è stato trasformato per ricavare dallo Stato il maggior profitto possibile: un ettaro di vigneto è stato pagato, per far posto alla diga, 13 milioni. La cifra è stata raddoppiata se il proprietario ha dimostrato di essere un coltivatore diretto.
Dal 1970 quindi, abbiamo un terzo stadio evolutivo della mafia: i boss dietro le scrivanie degli enti pubblici, spostano i loro interessi nel retroterra e, in prevalenza, nelle zone della valle del Belice. Una mafia che sta alle calcagna di imprese colossali e di appalti di super – opere. Oltre mille miliardi i finanziamenti per la costruzione del Belice. E nel contempo sorgono una pletora di società private, con finalità non sempre chiare. In città resta posto per i contrabbandieri, per i rapinatori e per le piccole organizzazioni. L’evoluzione della mafia della Sicilia occidentale è costretta però a pagare un prezzo, a volte alto, nella ricerca di equilibri stabili e nella corsa all’accaparramento di privilegi e ricchezze. Ed ogni conquista lascia dietro una scia di delitti.
Abbiamo detto di una catena di agghiaccianti omicidi e di tre sequestri che hanno provocato stupore ed allarme sociale. Giuseppe Russo, la vittima di Ficuzza, piombò nella zona del Belice, esattamente a Roccamena, sin dall’8 settembre 1974, giorno in cui fu rapito il giovane enologo monrealese Franco Madonia, per il cui rilascio (15 aprile 1975), lo zio “don” Peppino Garda ha pagato un riscatto di un miliardo. Il 1° luglio 1975 fu sequestrato il docente universitario Nicola Campisi, rilasciato l’8 agosto, dopo il pagamento di settanta milioni e infine, il 17 luglio, il sequestro senza ritorno del re delle esattorie, Luigi Corleo. A questi tre eclatanti rapimenti sono seguite impressionanti catene di delitti. Si cominciò a Corleone con la soppressione di Biagio Schillaci (27 luglio 1975), si continuò a Corleone con l’attentato a Leoluca Grizzaffi.
Chi è Leoluca Grizzaffi? Un nome che non figura nel “gotha” mafioso. Eppure l’allora maggiore Russo scoprì che il Grizzaffi, era un “intoccabile”. Il suo tentato omicidio aveva dunque aperto un capitolo abbastanza drammatico e senza limiti di vendetta. Leoluca Grizzaffi è, infatti, fratello di Giovanni, figlio di Caterina Riina, sorella di Totò, il fedele luogotenente di Luciano Liggio. Riina ha anche sposato segretamente (officiante padre Agostino Coppola), nell’aprile 1974, la maestrina corleonese Antonietta Bagarella, sorella di Calogero, altro luogotenente della “primula”. Un affronto, quindi, al clan di Luciano Liggio. Ma i Grizzaffi, oltre ad essere nipoti, sono i più attivi collaboratori dello zio Totò. Giuseppe Russo, ad esempio, ha scoperto che la Zoosicula “Risa” (che si tradurrebbe in Riina Salvatore) aveva, tra l’altro, acquistato il feudo “Rocche Rao” di Corleone, per oltre undici salme. Il fondo fu ceduto in affitto, per un canone irrisorio e per la durata di trenta anni, a Giovanni Grizzaffi, fratello di Leoluca. Avrebbe pagato allo zio o meglio alla “Risa” trenta salme di frumento l’anno. L’attentato dell’ottobre ’75 ha provocato quindi nel triangolo Corleone – Roccamena – Partinico la rottura di un equilibrio che ha portato ad una guerra, così come l’attentato di Piano di Scala, nel 1957, aveva portato a sei anni di guerra tra “navarriani” e “liggiani” nel corleonese. Sono questi gli episodi più significativi del dopo sequestro Campisi e Corleo: episodi che indussero il maggiore Russo ad ipotizzare, con maggiore convinzione, l’esistenza di un’asse Liggio – Coppola nell'”anonima sequestri”. In quest’epoca si infittisce la rete di società paravento (Solitano, Risa, Sifac, etc.) che, forse intravedendo la possibilità di intrufolarsi in appalti e subappalti, aumentano improvvisamente di svariate decine di milioni i loro capitali sociali. Denaro sporco, riciclato e utilizzato per iniziative pseudo industriali. A Corleone, intanto, la lotta divampa. L’attentato di Grizzaffi fu seguito il 12 gennaio 1976 dall’omicidio dell’autotrasportatore Giuseppe Zabbia: il 13 febbraio successivo eccoci all’omicidio di Francesco Coniglio, impresario di pompe funebri, seguito dall’assassinio di Giovanni Provenzano (4 maggio), dall’omicidio di Rosario Cortimiglia (4 giugno), dalla soppressione del roccamese Giuseppe Alduino (29 agosto), di Giuseppe Scalici (9 gennaio 1977), dalla scomparsa di Onofrio Palazzo (9 luglio), dalla pubblica esecuzione di Giovanni Palazzo (23 luglio). Quindi la faida si sposta a Roccamena, da dove fugge, il 29 luglio, dopo essere scampato ad un attentato, il cavatore Rosario Napoli, in rapporti con la Lodigiani. Il 30 luglio è il turno di Giuseppe Artale, guardiano dell’impresa Paltrineri, assassinato sul ponte San Lorenzo. Il 10 agosto poi, il tiro dei killer si sposta a Mezzojuso, dove viene freddato Salvatore La Gattuta e, infine, la spirale si chiude a Ficuzza, con la duplice esecuzione del colonnello Giuseppe Russo e dell’insegnante Costa.
Una spirale apertasi a Corleone e che, nel suo vortice, racchiude l’altra catena di attentati e delitti avvenuta in parallelo nel trapanese. Il 26 febbraio 1976 sulla Mazara – Punta Raisi furono feriti il geometra – imprenditore Pietro Lombardino e il suo amico Stefano Accardo, il 5 aprile furono assassinati, a Marsala, Silvestro Messina ed Ernesto Cordio, quattro giorni dopo, a Mazara, fu il turno di Antonino Luppino. Gli ultimi omicidi sono recentissimi (del luglio e dell’agosto scorsi). A Monreale, intanto, erano stati fatti fuori Remo Corrao (dicembre 1975), il suo socio Aloisio Costa (22 gennaio 1976). Due gravi delitti seguiti dall’uccisione, a San Cipirello, di Enzo Caravà (12 aprile 1976), a Mazara, di Agostino Cucchiara (25 agosto), a Castelvetrano, di Baldassare Ingrassia (11 dicembre 1976). Delitti preceduti dalla soppressione a Partinico e Balestrate di Angelo Genovese e Angelo Sgroi.
Giuseppe Russo lasciò il comando del nucleo investigativo mentre indagava per questi delitti. Diceva di volere andare in “pensione”. E’ certo che rifiutò il comando del gruppo di Reggio Calabria. Si dice che durante la “convalescenza” abbia tentato la carta delle pubbliche relazioni per conto di grosse imprese impegnate anche nella zona del Belice. La sua morte ha aperto dei grossi interrogativi cui lui soltanto, forse, avrebbe potuto rispondere con certezza: è caduto per essersi introdotto in un terreno per lui minato dalle approfondite indagini che aveva fatto anche sul conto di imprese intrufolate nella costruzione del Belice? O è caduto per mano di chi si è ostinato a vedere in Russo ancora il “segugio” alle calcagna della mafia organizzata, piuttosto che il borghese, per poco ancora in divisa, avviato su strada nuova, anche se per conto di supersocietà? O piuttosto questo duplice delitto di Ficuzza, dietro la clamorosità del fatto, non nasconde una terza causale?
LA “GUERRA DEL DOPO CAMPISI-CORLEO”
La “guerra del dopo Campisi-Corleo”
Del banchetto organizzato in un ristorante di Mazara del Vallo il 27 febbraio 1976 da Rosario Cascio (festeggiò così il contratto stipulato con la Lodigiani per costruire il cantiere-operai per la diga e per realizzare la galleria destinata a deviare il corso del fiume Belice fino al termine dei lavori) bisognerà ricordarsi come punto di partenza nelle indagini per l’omicidio a Ficuzza del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo.
Quel giorno resterà una data importante perché, ancora una volta, si tentò di uccidere.
La comitiva si divise nel primo pomeriggio. I tecnici della Lodigiani tornarono a Garcia con le loro auto. Cascio si diresse con altri tecnici verso Montevago e Stefano Accardo si mise alla guida della sua “Mercedes” diretto a Partanna insieme al geometra Paolo Lombardino. Prima di lasciare Mazara, Accardo fece il pieno di benzina presso un distributore gestito da Antonino Luppino, un uomo con il quale scambiò qualche parola. Fatto il pieno la “Mercedes” partì per l’autostrada Mazara-Punta Raisi.
Secondo una ricostruzione attendibile, Luppino – subito dopo la partenza di Accardo e del suo compagno di viaggio – avrebbe informato qualcuno sull’itinerario della “Mercedes”. E’ certo comunque che, quando l’auto del boss giunse all’altezza dell’abitato di Castelvetrano, da una macchina affiancatasi in velocità furono sparati colpi di mitra e di pistola. La “Mercedes” fu ridotta ad un colabrodo ma sia Accardo che Lombardino rimasero feriti soltanto di striscio tanto che – dopo avere finto di essere morti – proseguirono verso Palermo.
Due le versioni sull’attentato fallito: Accardo doveva morire perché punito da chi lo ritiene autore della soppressione di Vito Cordio ovvero doveva essere eliminato perché le sue confidenze al colonnello Russo avevano consentito la denuncia degli autori dei sequestri Campisi e Corleo.
La risposta all’attentato non si fece attendere. Il 5 aprile, in contrada Ciaccio di Marsala, un “commando” a bordo di un’auto di grossa cilindrata assalì una “131” uccidendo il latitante Silvestro Messina e ferendo il fratello di Vito Cordio, Ernesto Paolo; si salvarono anche Giuseppe Ferro e Vito Vannutelli.
La paternità dell’agguato viene affibbiata ad Accardo, denunciato ma subito dopo scarcerato.
La serie continua con l’uccisione di Antonino Luppino, proprio il benzinaio di Marsala, probabilmente punito per le informazioni fornite al gruppo Messina-Ferro-Vannutelli.
Lunghissima la catena di sangue contrassegnata da nomi non sempre di spicco: Cucchiara, Ingrassia, Piazza, Nicolò Messina, Mario Cordio, Casano. Fino all’assassinio di Vito Vannutelli, fatto fuori non appena uscito dal Palazzo di Giustizia di Palermo dopo un rinvio del processo nel quale figurava imputato insieme a Giuseppe Ferro, a Nicolò Messina (ucciso a Mazara il 16 luglio ’77) e al latitante Giuseppe Renda.
Vediamo come i carabinieri individuarono le responsabilità di Vannutelli, colpito da due ordini di cattura per il sequestro Corleo e per l’attentato a Stefano Accardo e Paolo Lombardino. Lo arrestarono per caso insieme a Nicolò Messina e a Giuseppe Ferro, anch’essi ricercati per i sequestri Corleo e Campisi.
I militari avevano organizzato in contrada Marchese, al confine tra il territorio di Monreale e quello di Camporeale, una battuta nel tentativo di rintracciare gli undici bovini rubati la notte tra il 18 e il 19 agosto ’76 al pastore Vito Sciortino. Ad un tratto avvistarono due individui accovacciati e armati in mezzo ad un vigneto, a due passi da un casolare.
Appena videro le divise, i due fuggirono abbandonando una pistola ed un fucile a canne mozze. I carabinieri non riuscirono ad acciuffarli ma li riconobbero: erano Giuseppe Ferro e Giuseppe Renda. Poco dopo sul posto giunse una “126” con a bordo Vito Vannutelli e Nicolò Messina. Avevano un fucile a canne mozze, munizioni e due coltelli. Arrestati i due, si riuscì a mettere le mani addosso a Giuseppe Ferro, latitante da diverso tempo. A Vannutelli fu notificato un ordine di cattura per l’attentato ad Accardo e Lombardino e presentata una notificazione giudiziaria per il sequestro Campisi.
Per le armi di cui furono trovati in possesso al momento dell’arresto, Vito Vannutelli, Nicolò Messina e Giuseppe Renda furono rinviati a giudizio i primo febbraio 1977 dal giudice istruttore Mario Fratantonio. Ferro, fu poi condannato a due anni e sei mesi di reclusione, Vannutelli a due anni e Messina a un mese di arresto per favoreggiamento. Quest’ultimo, ritornato a Mazara, sarà ucciso il 16 luglio ’77, quattro giorni dopo la sua scarcerazione.
E’ l’ottavo omicidio della “catena”. Contrastanti le tesi sul movente. Si è ventilata l’ipotesi di un seguito nella guerra fratricida in seno alla stessa cosca dei sequestri per la mancata divisione dei settecento milioni del riscatto Campisi. Effettivamente ci furono difficoltà per il riciclaggio del denaro a causa delle traversie giudiziarie delle persone che avevano i soldi.
Non manca chi sostiene che Nicolò Messina fu fatto fuori da un clan avverso e vicino a Stefano Accardo.
Né si può trascurare l’ipotesi che Nicolò Messina e, dopo, Vito Vannutelli siano stati eliminati perché ritenuti responsabili dell’identificazione di Giuseppe Ferro e di Giuseppe Renda in occasione del loro arresto in contrada Marchese a Monreale. Una delazione che avrebbe consentito ai carabinieri di individuare subito il nascondiglio di Ferro, arrestato mentre Giuseppe Renda, per la seconda volta, riusciva a sottrarsi alla cattura.
Una tesi non trascurabile quest’ultima. Di rilievo un particolare: quando il 5 luglio 1977 cominciò il processo per le armi trovategli al momento dell’arresto, Ferro non si presentò in aula per non incontrarsi con Vannutelli e Silvestro Messina, anch’essi detenuti.
Comparve in aula, invece, nel gennaio 1978 insieme al compaesano Giuseppe Filippi in occasione del processo per il sequestro Campisi. Notata, infine, la sua assenza dall’aula il 7 marzo 1978, in occasione del processo di secondo grado per cui era stato condannato a due anni e sei mesi di reclusione. Anche questa volta avrebbe così evitato di incontrare sul banco degli imputati Vito Vannutelli.
Fonte : Blog Mario Francese
Il Circolaccio