Nel 1957 la visita di Joe Bananas a Palermo segna una svolta epocale nella storia della mafia: mafiosi siciliani e americani si incontrano al Grand Hotel et del Palmes dove si discuterà del traffico di eroina e non solo
I misteri, gli intrighi e i segreti dell’Hotel delle Palme sono tanti.
Al summit parteciparano : Giuseppe Genco Russo, Angelo La Barbera, Gaetano Badalamenti, Calcedonio Di Pisa, Cesare Manzella e Tommaso Buscetta.
I boss americani: Lucky Luciano( che si faceva chimare Salvatore Lucania) , Santo Sorge, John Di Bella, Vito Vitale
ll famoso Hotel di Palermo dove per 50 anni , nella Stanza 204 ,visse per quasi 50 anni il Barone Di Stefano di Castelvetrano è stato luogo di incontri storici e luogo d’ incontro di varie consorterie. Di Stefano, per molti anni fu “testimone” di summit e occasioni di particolare mondanità. Non fu mai chiaro perché Barone Di Stefano avesse scelto questa specie di esilio dorato. Anche se tutto sembrò essere nato da qualcosa che suscitò le ire di un tribunale mafioso che aveva sentenziato proprio l’esilio per il Barone, ovviamente in alternativa alla cassa da morto! Il Barone Di Stefano era sempre presente nei saloni dorati dell’Albergo. Tutti lo conoscevano e ritenevano un onore conversare con Lui. Il suo “esilio ” ebbe inizio nel 1946 per concludersi nel 1998. Un esilio scontato in un luogo ritenuto sicuro dai grandi mafiosi della terra
Erano gli anni ruggenti e selvaggi della delinquenza mafiosa incontrastata. Tanto incontrastata e padrona del campo da poter tenere a Palermo quasi alla luce del sole un convegno di boss siculo-americani.
Avveniva cinquant’anni fa, nell’ottobre del 1957, quando all’Hotel des Palmes si riunirono, come fosse un convegno scientifico, i capi di Cosa nostra americana e i capi della mafia siciliana. Palermo era la terra promessa, o se volete la Medina, fertile giardino che aveva prodotto i migliori frutti della delinquenza locale e d’oltre oceano. E quell’anno 1957 prometteva molto per la nuova strategia degli affari mafiosi. Il “prestigio” di un don Calò Vizzini (che morirà l’anno seguente) o di un Giuseppe Genco Russo era molto sentito anche negli States. A Palermo, i mafiosi operavano a trecentossessanta gradi: si inserivano trionfalmente nell’edilizia, agevolata dallo sviluppo demografico (i residenti erano passati dai 411.000 del ’36 ai 580.000 del ’57), comportando un disordinato sviluppo urbanistico, il cosiddetto «sacco di Palermo» che prendeva il sopravvento sulla ricostruzione del centro storico; mantenevano il loro assoluto controllo sul mercato ortofrutticolo, sul contrabbando dei tabacchi e sugli agrumeti della Conca d’oro.
Intanto si cominciava a rendere più organici i rapporti tra politici e mafiosi. Nel corso degli anni Cinquanta, con il passaggio delle vecchie forze del blocco agrario (monarchici e liberali) alla Democrazia cristiana, anche la mafia cercava di allearsi con il partito di maggioranza relativa. Nella Dc palermitana prendeva il sopravvento un gruppo di giovani grintosi e determinati (“i giovani turchi”), guidati dai fanfaniani Gullotti e Gioia. La giunta comunale era formata (come alla Regione) da un tripartito Dc, Pli, Psdi, con l’appoggio esterno dei monarchici. Sindaco era l’ingegnere catanese Luciano Maugeri (mattarelliano), con due assessori di sicuro futuro: Salvo Lima ai Lavori pubblici, e Vito Ciancimino alle Aziende municipalizzate.
Ma intanto un nuovo business, quello degli stupefacenti (in Italia promosso e organizzato da Lucky Luciano) veniva a sconvolgere i tradizionali assetti del malaffare cittadino. Il centro del traffico della droga era nella zona del porto e il trasferimento poi in questa zona del mercato ortofrutticolo, dall’inadeguato quartiere di via Guglielmo il Buono, dava il via ad un feroce scontro tra la vecchia e la giovane mafia a colpi di mitra e di lupara. Dei 211 morti ammazzati per le vie di Palermo fra il ’51 e il ’59, la maggior parte cadde proprio negli anni 1956 e ’57, vittime sia i manovali che i pezzi da novanta. Senza contare i numerosi morti e feriti all’interno dell’Ucciardone a causa di “caduta nelle scale”. I benpensanti commentavano questo incredibile scanna-scanna con una frase che era diventata un ritornello: «Lasciamo che si scannino fra di loro».
La grande mattanza del ’56 iniziò con l’omicidio di Carmelo Napoli, impresario di pompe funebri implicato in molti affari, che in via Maqueda fu inchiodato al muro da raffiche di mitra sparate da una 1100 nera. Poi il Napoli scivolò con le gambe larghe sul marciapiedi dove si sedette rantolando. Come scrissero i cronisti, avrebbe avuto il tempo di fare i nomi dei suoi uccisori, ma preferì tacere. La morte gli era stata annunciata una settimana prima con un pacco postale che conteneva la testa del suo cane lupo. Partì così la più terrificante catena di delitti che la cronaca della città ricordi.
In questo clima, fu organizzato fra le due sponde dell’Atlantico il “memorabile” summit di mafia tenuto all’Hotel des Palmes fra il 10 e il 14 ottobre 1957. L’unica cronaca dettagliata e documentata di questo gran consiglio la dobbiamo a Michele Pantaleone, nel suo libro Mafia e politica (Einaudi 1962), e ad alcuni suoi articoli su “L’Ora”, che rappresentano la guida di questa sintetica rievocazione.
Quella guerra fra le “famiglie” siciliane, dunque, cominciò a preoccupare seriamente i capi del “sindacato” americano, i quali indissero il summit palermitano per stabilire alcuni punti fermi di comune interesse. I punti da discutere – secondo Pantaleone – erano questi: 1) far cessare la lotta fra le gang palermitane, le cui ripercussioni erano state avvertite anche nell’attività di Cosa Nostra americana; 2) sancire il principio secondo il quale i rapporti con Cosa Nostra dovevano essere garantiti dai capi della mafia siciliana, verso i quali andava la fiducia di tutta l’organizzazione americana; 3) stabilire i criteri di accreditamento dei corrieri siciliani nel traffico degli stupefacenti; 4) separare dal traffico della droga il contrabbando dei tabacchi facilmente individuabile e, comunque, privo di interesse per i boss americani. A questi quattro punti se ne dovette aggiungere un quinto: «il problema Anastasia». Cioè decidere la sorte del feroce boss Albert Anastasia, divenuto scomodo alla maggior parte delle “famiglie”. Era diventato «un arrabbiato davvero fuori di testa», come lo definì Lucky Luciano. Certo che al ritorno dei boss negli Usa, il 25 ottobre Albert Anastasia fu fatto fuori a colpi di mitra mentre si sbarbava nella barbieria dello Sheraton Park Hotel nel centro di New York.
Perciò, a chi volesse prendersi la briga di dare un’occhiata a simili – esistenti o no – divaricazioni, non è forse superfluo ricordare che Giuseppe Bertolino, classe 1902, aveva un notevole interesse per l’alcool. Non sappiamo da dove gli derivasse questo amore. Si era dovuto recare negli Stati Uniti, dove il fascismo aveva mandato il suo compaesano Francesco Paolo Coppola, alias “Frank Tre dita”, diventato uno dei più grandi trafficanti di droga del mondo, al pari del suo corregionale Lucky Luciano. Coppola era collegato con Diego Plaia, Salvatore Greco e Giuseppe Corso, quest’ultimo partinicese doc pure lui.
Gli interessi per l’alcool del Bertolino vengono ammessi, durante il procedimento penale a carico dei Magaddino di Castellammare del Golfo, negli anni ’60, quando Manlio Rizzoni nella sua veste di funzionario del Banco di Sicilia a New York, conobbe, tra il 1946 e il 1958, Calogero Orlando e, appunto, Giuseppe Bertolino “già soci nel commercio dell’alcool”. Ma questo potrebbe non significare nulla se attorno al fondatore di quella che sarà la più grande distilleria d’Europa, non girassero fior fiori di personaggi che hanno fatto la storia di Cosa Nostra nel secolo scorso.
Ad esempio, quando nel Natale del 1962 alcuni colpi di lupara freddarono nella piazza Principe di Camporeale, a Palermo, il boss Calcedonio Di Pisa, grande trafficante di droga tra la Sicilia e gli Usa, addosso gli fu trovato un taccuino nel quale risultava scritto il nome di Giuseppe Bertolino, già noto alla Guardia di Finanza perché in contatto, non sappiamo per quali motivi, con trafficanti di stupefacenti del calibro di Salvatore Zizzo.
Il salto di qualità nella nuova impresa del crimine organizzato in Sicilia, merito o demerito certamente non attribuibile al nostro benemerito concittadino, era stato determinato dall’ormai famoso convegno del 1957 a Palermo. A luglio il gangster americano Francesco Garofalo, alias Frank, legato alla mafia di Castellammare del Golfo, aveva anticipato tutti, fissando la sua dimora a Palermo e nel paese di Gaspare Magaddino e Diego Plaia, con i quali, nei viaggi da e per gli Stati Uniti, aveva avuto frequenti contatti. Al summit, tenutosi dal 12 al 16 ottobre di quell’anno all’hotel delle Palme, aveva partecipato il ghota della Cosa nostra siculo-americana, sotto lo scettro indiscusso di Salvatore Lucania, alias Lucky Luciano.
In quest’epoca altri italo-americani fanno la loro comparsa: Vincent Martinez, amico di Garofalo, Calogero Orlando, alias Charles, collegato alla mafia americana di Detroit, Frank Tre Dita e Giuseppe Bertolino entrambi residenti negli Stati Uniti ed appartenenti all’organizzazione mafiosa di Giovanni Priziola, alias “Papa John”. Il boss Giovanni Bonventre, in particolare, arrestato in Italia nel luglio 1957, si stabilisce a New York dove dal 1923 al 1931, in pieno proibizionismo, fa il piazzista di vino e birra, “rifornendo – come leggiamo negli atti antimafia – le fabbriche clandestine di alcool di prodotti chimici utilizzati per la distillazione degli alcolici”. In America conosce Joe Bonanno, alias Bananas.
Giuseppe Bertolino, dal canto suo, gode di speciali rapporti con Calogero Orlando, magnate del commercio di alimentari in tutti gli Stati Uniti. I due si erano conosciuti, già dall’infanzia a Partinico, e si erano incontrati molte volte negli Usa, a Detroit fino al 1927, in Cleveland dal 1932 al 1934, e in Italia: una volta nel 1936, e molte altre volte nel dopoguerra, a Palermo. Ma, stando alle dichiarazioni del boss Giuseppe Martinez i due vanno a trovarlo nella sua casa di Marsala anche nel 1930, dopo che egli ha conosciuto il Bertolino nel 1926 negli Stati Uniti.
Erano altri tempi, c’è da dire. Ed è giusto che ci chiediamo se quel passato triste per la Sicilia e i siciliani, sia stato riscattato allontanando le ombre che per qualcuno avrebbero potuto pesare sulla storia di una famiglia, che, stando alla sentenza di rinvio a giudizio (1966) di quei galantuomini alla ricerca di affari, non contempla tra gli imputati il nome di questo nostro paesano. Forse aveva i vizi e le virtù di tutti i siciliani. E non solo di loro. Ma il torto di Bertolino era forse quello di fare il moscone, di gironzolare attorno, di muoversi tra il dentro e il fuori. Come fanno oggi molte persone che possiamo considerare nella zona che Nando Dalla Chiesa chiama grigia.
Fonte: Reubblica, Casarubbea, Tacus
Il Circolaccio