Con l’adozione di nuovi strumenti metodologici, Carlo Ruta riapre con successo e con argomenti forti la discussione sulla dittatura mussoliniana, introducendo la categoria di fascismo plurale, che, coordinata con l’elemento trasformistico, permette di ridefinire la storia del regime italiano e le condizioni di base del totalitarismo
Nel suo Il fascismo eterno, Umberto Eco sosteneva che «fascismo» è un concetto che non ha un’essenza, ma dai significati plurali e dai confini incerti e sfumati: tra i fascismi ci sarebbero solo «somiglianze di famiglia» nel senso di Wittgenstein. Discutendo il fascismo italiano, che fu la «madre» di tutti i fascismi europei e non, Carlo Ruta in un certo senso va più in là. Il fascismo italiano – dispositivo di conquista del potere e del consenso per puro amore del consenso e del potere – non si accentrò, a differenza di altre forme, in alcuna forma direzionale che non fosse la stessa gestione del «fascismo plurale» (Ruta), cioè del paese esistente e convertito: così il fascismo italiano, che cercò rapporti pacifici e strumentali ma non organici con la Chiesa e con l’Esercito, fu per così dire un metafascismo, un fascismo aperto a tutte le opzioni dei fascismi – fino a quelle, guerrafondaie e razziste, che da ultimo lo trassero alla rovina.
In altre parole, era il fascismo per il fascismo, il dominio dello stato per il dominio dello stato: questo fascismo non aveva, a dispetto di dottrine ancillari e destinate ad accattivarsi il fascismo plurale, un’ideologia. Tutto il contrario che in Germania (e quando cercò di procurarsene una collassò). Non rappresentava una rivoluzione, tantomeno una «rivoluzione conservatrice». Una rivoluzione non sostituisce un ceto impiegatizio e parassitario ad un altro, ma ad una classe una classe nuova (l’intuizione di Gramsci, cui Ruta accenna).
Quale dunque l’essenza, in realtà casuale e mutevole, di questo metafascismo? Ruta la riassume innanzitutto sotto la etichetta di fascismo trasformista. Felicemente, perché in una sola formula viene così ricordata sia l’attitudine all’adattamento, al mimetismo e ai cambiamenti di fronte tipica per indole del fascismo italiano, sia la sua propria origine storica, all’insegna della continuità con la precedente epoca del liberalismo e, appunto, della politica «trasformista». Come si spiega sin dall’inizio del volume, tutto questo non significa affatto, comunque, che si trattasse di un fascismo debole, irrealizzato, prono a compromessi che lo limitavano davvero. Tutt’altro. Funzionò a lungo meglio del nazismo, forse avrebbe potuto andare avanti (e ancor oggi ha sopravvivenze). Si è ingenui, ci dice Ruta in fondo, se si dubita che il fascismo abbia saputo in qualche modo ottimizzare il rapporto col capitalismo e coi ceti dominanti, o se si immagina poi che non fosse, per il suo trasformismo e «pluralismo», una dittatura sanguinosa e devastante. Né ideologico né rivoluzionario, senza volto e trasformista, il nostro fascismo fu tuttavia certamente e nettamente totalitario. È questo il binomio che sta, sin dal titolo, al centro della serrata indagine, rivolta tanto agli eventi quanto ai concetti e alla propaganda, da cui è costituito tutto il libro. E la propaganda e la scuola erano centralissime, Ruta vi dedica ampio spazio. Come poteva un movimento dittatoriale violento ma a-ideologico, totalitario ma plurale e trasformista, «fare presa» se non con la radio, le canzoni, le cartoline, i sussidiari, i testi di una inesistente «mistica»? Il regime riuscì a diseducare quasi due generazioni di italiani. Ruta polemizza implicitamente contro la tesi di Giovanni Sabbatucci del «totalitarismo imperfetto», e alla luce di tutto questo la polemica è convincente.
Nonostante l’ampiezza – dovuta anche alla vasta e interessante documentazione, inclusa quella iconografica – questo libro non è un poderoso tomo di analisi di documenti e tendenze storiografiche: ce ne sono già tanti. Non è neppure una sintesi di storia del fascismo – anche se, come strumento, assolve bene a questo compito. Molti risultati ad es. di storia economica sono assunti come dati. È piuttosto un testo che si assume, con successo, il rischio di fornire una prospettiva nuova, quale abbiamo delineato, sul fenomeno storiografico in oggetto. E lo fa facendo proprio in pieno l’obiettivo di darci un’idea, qualitativa ma precisa, di come un fascismo (il primo fascismo, o metafascismo, come mi sono azzardato a dire) funziona e può funzionare: attraverso il binomio antiideologico di totalitarismo e trasformismo.
È un compito quanto mai attuale, non solo storiografico ma politico; un libro recente di Jason Stanley lo persegue sotto il titolo di How Fascism Works. Ruta trova la quadratura della nascita e della prosecuzione del primo stato totalitario europeo (metafascista, ho detto), della logica del suo funzionamento, nel sostenersi reciproco di violenza totalitaria e trasformismo politico e dirigistico, di dominio dello stato e apertura al fascismo plurale, di ossequio ma anche strumentalizzazione, ad es., della monarchia, della Chiesa e dell’esercito. Qui l’analisi tocca il suo culmine, e ha pieno successo. E, per chiudere, non mi pare un caso che proprio in questo contesto si trovino le uniche, ma dense e da meditare, parole del libro dedicate al postfascismo, e anche al nostro presente: «[i]l trasformismo fece in sostanza la differenza del regime e fu la carta vincente di Mussolini […] Quella pratica fu essenziale nelle svolte che consolidarono il regime, convisse in maniera paradossale con la maturità e il declino dell’Italia fascista, fino all’ultimo atto politico della repubblica di Salò, ancora trasformistico, che consegnava una parte cospicua del paese all’occupante tedesco, per sopravvivere infine, dopo la liberazione, come una infezione insidiosa nell’intimo dell’Italia repubblicana.» (pp. 63-64).
Carlo Ruta, Il fascismo totalitario e trasformista. Ripensare la dittatura: il potere mussoliniano, il regime plurale, la formazione dello Stato totale (Con lettere e altri documenti inediti e rari, dagli anni venti alla caduta), Palermo, Sapere Libri, 2 agosto 2024, pp. 240.