Che giorno quel dannato 24 dicembre 1992. In quasi tutto il mondo, le famiglie, si stanno preparando a festeggiare il Santo Natale. Ma… a Palermo, in una casa popolare della periferia del capoluogo siciliano, qualcosa sta per cambiare per sempre la dignità di quella famiglia.
In questo condominio viveva e, vive tutt’ora, uno dei più grandi poliziotti che la Repubblica abbia conosciuto. Il Dirigente Generale Bruno Contrada.
Alle ore 7.00 di quel maledetto 24 dicembre, l’intimità e la rispettabilità della famiglia Contrada stava per essere violentata.
La becera testimonianza di alcuni “collaboratori di giustizia” aveva spinto alcuni magistrati a firmare un mandato di cattura ai sensi del reato di Concorso Esterno in Associazione Mafiosa, un’estensione giurisprudenziale dell’art. 416 bis Codice Penale (Associazione di Tipo Mafioso) e 110 Codice Penale (Pena per coloro che Concorrono nel Reato).
Celebre è la frase di Contrada dopo aver sentito i capi d’accusa: “Se ho fatto questo non devo andare in carcere, la pena non potrebbe essere che la fucilazione alle spalle. Così si fa con i traditori della Patria”.
Per la magistratura, Contrada era così pericoloso che si meritò una misura di isolamento esclusivo, nel carcere militare di Forte Boccea, riaperto esclusivamente per lui, in forma di carcere preventivo fino al 31 luglio 1995.
Sono ormai passati 30 anni da quell’arresto, da quanto la sua brillante figura venne infangata da una parte della magistratura (in malafede), da una parte di pseudo giornalisti e da molteplici militanti dell’antimafia (ricordo che il termine antimafia nell’articolo di Sciascia era dispregiativo).
Potremmo smontare in qualsiasi modo il vergognoso processo Contrada. “Aveva paura di fare la stessa fine di Giuliano, si è venduto alla mafia”. Peccato che, a seguito dell’omicidio Giuliano, riprese le redini della Squadra Mobile mentre era Dirigente della Criminalpol per la Sicilia Occidentale portando avanti in prima persona le indagini. “Falcone e Borsellino non si fidavano di lui”. Peccato che ci siano encomi a firma degli stessi.
Quando si parla di Contrada bisogna sciacquarsi la bocca e rispettare l’uomo che nonostante si sia visto tradito da alcuni membri del suo stesso Stato, non ha mai abbassato la testa, anzi ha sempre rispettato la sua Patria come se nulla fosse successo.
Vorrei ricordare che il dott. Contrada che continuamente viene definito il numero 2 del S.I.S.De (come se fosse una vergogna ricoprire questo prestigioso incarico governativo) nel 1992, era il 2º in graduatoria tra i Dirigenti Generali della Polizia di Stato con contratto triennale transitato alle dipendeze della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Durante la detenzione di Contrada presso il carcere di Forte Boccea accaddero questi fatti emblematici:
– “Durante le festività natalizie l’arcivescovo ordinario militare, monsignor Giovanni Marra, venne a Forte Boccea e celebrò la messa per tutti detenuti e il personale penitenziario. Tutti parteciparono alla funzione religiosa con un’unica eccezione: il detenuto in attesa di giudizio Bruno Contrada. A me non fu permesso e non ho mai saputo per quale motivo e per volontà di chi ciò accade. Chiesi la motivazione al cappellano militare del carcere, Enrico Pirrotta, giovane e intelligente sacerdote bergamasco, con il quale avuto un ottimo rapporto, traendone beneficio e aiuto morale, Per tutto il periodo della mia permanenza a Forte Boccea. Qualcuno mi disse poi che non venne data l’autorizzazione dalla Procura della Repubblica di Palermo e qualcuno che era stata una disposizione autonoma del direttore del carcere. […].
– Mia moglie, durante tutto il periodo di carcerazione presso Forte Boccea non è mai venuta a trovarmi, sia perché le condizioni di salute le impedivano di viaggiare, sia perché non sopportava di vedermi in catene. Un giorno, nel 1993, mi convinsi a telefonarle per Ferragosto, è l’11 agosto presentai alla direzione del carcere un’istanza indirizzata alla procura di Palermo per la relativa autorizzazione. Otto mesi senza sentire la sua voce, un’eternità. Ero emozionato alla sola idea. Passò un giorno, ne passano due: nessuna risposta. Mi venne assicurato che l’istanza era stata inoltrata via Fax quella stessa mattina dell’11 agosto, ma l’autorizzazione continuava a non arrivare. Alcuni giorni dopo Ferragosto, si materializzò alla direzione del carcere il seguente provvedimento, scritto in calce alla mia istanza: “Visto, si rigetta, in considerazione del fatto che l’istanza è pervenuta a questo ufficio il 20 agosto 1993 e la richiesta è per il 15 agosto precedente. Palermo, 20 agosto 1993. Il Procuratore della Repubblica Aggiunto Luigi Croce”. Letta la motivazione rimasi interdetto. Pensai che probabilmente, per vari disguidi e per motivi connessi alle ferie estive, forse la mia istanza non era stata recapitata in tempo per ottenere l’autorizzazione per Ferragosto. Ma pensai anche che il Procuratore aggiunto poteva tuttavia scrivere una cosa del genere: “visto, si rigetta per quel giorno, si autorizza per i successivi”. Ripensai anche agli ottimi rapporti avuti per anni con tutti i magistrati palermitani, compreso il dottor Luigi Croce, quand’era ancora sostituto procuratore e io funzionario e poi Capo della Squadra Mobile”.
(Pag.213 a 216, “La mia Prigione, storia vera di un poliziotto a Palermo”, i nodi Marsilio”.
Insomma, in Italia vengono concesse una “vacanze premio” a pluriomicidi e non è stato permesso di presenziare ad una celebrazione religiosa a un detenuto e tanto meno di contattare per via telefonica la moglie.
Ricordiamo che la CEDU ha sentenziato che il dottor Contrada non poteva essere né processato e tanto meno incarcerato in quanto all’epoca dei fatti il reato non esisteva. (Sentenza numero 3 del 2015, “Contrada contro Italia”). L’anno precedente, con la sentenza numero 2, la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, ha condannato l’Italia per la violazione dell’art.3 della “convenzione europea per i diritti umani” in quanto avrebbe inflitto trattamenti inumani e degradanti perché non doveva essere incarcerato inoltre, la sua condizione di salute era incompatibile con il regime carcerario.
Oggi Bruno Contrada, che mi onoro di aver conosciuto, è un uomo libero e incensurato che a 91 anni è costretto ancora a sentirsi violentato, sentendo false accuse, per ottenere il risarcimento per l’ingiusta detenzione.
Non può esistere la giustizia li dove manca la correttezza processuale. Eravamo la culla del diritto… ora… siamo la culla del rovescio.