
Recensione di Giuseppe Varnier
Quando pensiamo all’Islam, di oggi e ancor più di ieri, pensiamo spesso – magari con reticenze e paure – ad una specie di blocco inamovibile. Niente potrebbe essere più sbagliato, ed anche fuorviante se si ha in mente una indagine della stessa contemporaneità, soprattutto in un’ottica geopolitica e diacronica. Forse il messaggio più importante di questo breve e ben focalizzato libro di Carlo Ruta è proprio questo: c’è tutta una costellazione di confronti culturali e non solo da dipanare, e la storia delle battaglie e degli imperi non vale né basta di per sé a fare questo. A tale messaggio si accosta e si intreccia la riscoperta di un’altra pluralità e multiformità: quella della stessa Sicilia, e delle tante Sicilie succedutesi nello spazio e nel tempo, e prese sia nell’accezione geografica, prettamente insulare (e in sé interessantissima), sia come Regno delle Due Sicilie, comprendente tutta l’Italia del Sud con le sue vaste connessioni europee sin dall’Evo Medio. Ruta prende in considerazione la storia evolutiva di questa complessa e dinamica configurazione geografica, politica, e culturale – caratterizzata apparentemente dalla semplice pressione islamica – a partire dai secoli del predominio navale e tecnologico dell’Impero Romano di Oriente (dopo il VI sec.) sino a Federico II e oltre. È alla ricerca non tanto di una ripetizione di schemi noti che aprono su transizioni storiche dagli esiti (a posteriori!) ovvii, quanto di aree in cui gli attriti bellici ed etnici si svolgano, come in realtà sempre accade, in nodi interessanti, transazioni non banali, insomma “aree di sperimentazione”.
All’inizio di questa traiettoria temporale, la rinomanza dell’isola, per cultura e ricchezza, è notevole. Ma la Sicilia resta per così dire “fedele a sé stessa” con continuità nella sua lontananza isolata e isolana: “La conquista arabo-berbera della Sicilia sovvertiva per intero la scena del potere ma, per paradosso, rimaneva inalterato il paradigma della separatezza che stringeva l’isola. Se nei secoli bizantini il thema insulare faceva storia a sé, perché slegato a conti fatti dalle dinamiche culturali di prossimità e sempre più vincolato alla corte imperiale di Costantinopoli, la Sicilia che dopo l’827 andava islamizzandosi si ritrovava in una situazione analoga o forse ancora più rigida, priva in fondo di relazioni culturali con il vicino Sud peninsulare e subordinata invece all’Islam africano.” I fatti e le res gestae sono noti. Le preoccupazioni di Ruta vanno più nella direzione di una metastoria: quali eventi e fermenti culturali sono stati inaugurati da quei fatti? Qual è stata la ricaduta culturale e scientifica di certe decisioni e forme della gestione del potere inestricabilmente sempre legato – avrebbe detto Foucault – al sapere (e viceversa)? V’è la consapevolezza che la dimensione delle interazioni storiche è, a questi livelli, condizione necessaria ma non sufficiente di quell’interculturalità che il libro vorrebbe rintracciare e narrare. Dove non c’è cultura rilevante non c’è neppure interculturalità, non può esserci.
Nell’isola, e nella sua storia, la cifra del confronto tra Islam e Cristianesimo non è certamente stata sempre la guerra senza quartiere (ne dovrà esserlo). Ma esemplare contrappasso a questo è tutta una vicenda di occasioni perdute. Questo fu dovuto ad un fattore apparentemente sovrastrutturale: la prevalenza nell’Islam dell’isola di studi coranici dei più tradizionalisti, cui non si ricambiava certo con novità epocali di parte cristiana; mentre altrove differentemente andavano le cose – ed in particolare nell’Italia meridionale sin dal secolo XI, specialmente in Campania e nelle aree limitrofe, in comunicazione con Montecassino, andava sorgendo una complessa tradizione medico-scientifica: una tradizione che si sarebbe posta alla massima altezza della ricerca rispetto all’intero contesto europeo, grazie alla Scuola Salernitana. Non c’era invece in Sicilia “approccio condiviso” islamico-cristiano “alla produzione culturale”, perché troppo deboli erano le premesse di questo genere su entrambi i fronti.
Non era di certo così ovunque! In certi luoghi, il dibattito interculturale, con esiti rivoluzionari per tutta la cultura europea, arrivava addirittura a stemperare l’opposizione politica e bellica tra le due grandi religioni, anzi le tre, poiché, grazie al loro apporto decisivo, anche agli Ebrei veniva spesso lasciato generoso spazio nel dialogo. I radicalismi religiosi venivano audacemente contenuti. E, per questo, Ruta passa a considerare la tradizione di Al Andalus dal XII secolo, e in particolare il fulgido esempio di Toledo, riportata alla cristianità nel 1085 dal castigliano Alfonso VI. Tra XI e XIII secolo, alcune delle dinamiche di certe aree, ma solo di alcune, del nostro mezzogiorno non sono infatti molto dissimili da quelle di tale fioritura iberica, la quale vedeva la città del Tago come punto di irradiazione addirittura europeo di saperi, pratiche e tradizioni culturali (a cominciare dalle fondamentali traduzioni dall’arabo al latino) che univano in maniera originale oriente ed occidente. La logica della opposizione religiosa e politica non è l’unica che la storiografia debba seguire: vi sono fenomeni storici che si situano sopra o al di là di essa, e la complicazione delle dinamiche culturali, ma anche dinastiche e personali, ne è talvolta direttamente rispecchiata. Ad esempio,“[n]on può essere senza significato che una figlia di Alfonso VI e Zaida di Siviglia, Elvira, intorno 1117 andasse in sposa a Ruggero II di Altavilla, quando questi, ereditata la contea di Sicilia, si trovava nel pieno di una sperimentazione interetnica. E quel matrimonio non poté mancare di effetti nella formazione politica del signore normanno, che poco più di una dozzina di anni dopo, con la riunione dei ducati dell’Italia meridionale e della contea siciliana, avrebbe dato avvio all’esperienza del Regnum.”
A Toledo e da Toledo, quell’esperienza all’inizio solo traduttoria finiva per sbocciare in “una sorta di movimento transculturale in grado di collegare in modo organico le aree intellettuali più attive, con effetti di rilievo sul terreno conoscitivo e di sprone alle istituzioni preposte all’istruzione, a partire dalle scuole delle cattedrali. Con influenze sulla formazione degli studia generalia, che in quel secolo andavano delineandosi.” V’è quindi una pista diretta che porta alla fissazione del trivium e quadrivium e alla loro elaborazione dal XII secolo in poi, e perciò anche alla definizione stessa della cultura medievale europea.
Come Ruta chiarisce, l’area salernitana persegue invece una sua propria via, anch’essa sintesi parziale di mondo islamico e cristiano, verso un’eccellenza che entrerà nella struttura universitaria del Medioevo maturo. Purtroppo, questo non doveva essere il destino della Sicilia. Tuttavia, già dal tempo di Ruggero II non mancavano “aperture intellettuali mirate” volte ad aumentare e consolidare il prestigio dinastico. Spiccavano gli studi geografici, col famoso “libro di Ruggero” del grande geografo al-Idrīsī – un planisfero che segnava la compenetrazione di due culture. Mentre Ruggero espandeva il suo regno con successo verso il Nordafrica, il Kitāb Rugiār non mancava di celebrare questa politica di potenza, ponendo la Sicilia al centro delle terre emerse. Pur nei suoi limiti, quest’opera arabo-normanna resta forse la più avanzata in Europa fino al XV secolo, ma risponde anche ad un bisogno conoscitivo scaturente da città marinare. Le arti materiali, peraltro, fiorivano nel ricco regno di Sicilia, illustrando nella loro pratica, per es. in un raggiungimento emblematico quale il mantello purpureo di Ruggero, il “«paradosso» della convivenza tra le etnie latina e arabo-berbera nel regno mediterraneo. Se il contenuto iconico rappresenta infatti il rapporto di dipendenza etnico-religiosa, con il leone latino che sovrasta il cammello arabo, nella sua fattura ematerialità il mantello evoca un ambiente in cui, a dispetto dell’ineguaglianza sancita giuridicamente,le maestranze latino-cristiane, arabo-berbere e greche si trovavano ad operare in una condizione di reciprocità sostanziale. È molto probabile allora che in quella officina reale, come scuola in grado di formare generazioni di artisti e artigiani e di diffondere modelli, emergessero le competenze, i saperi materiali e le sinergie etnico-culturali che il fondatore del Regnum Siciliae e i due Guglielmi impiegarono lungo i decenni per realizzare ed esibire la «grandeur» delloStato normanno”. Verticalmente, il messaggio è ideologico: il predominio dev’essere cristiano; orizzontalmente, più concretamente, il convergere e collaborare di più stili, tradizioni e religioni nella materialità del fare è svelato, e risulta anzi dominante. La coesistenza, più che un piano, è un risultato spontaneo: si manifesta nella società a conti fatti come una pluralità di elementi architettonici sulla facciata di una cattedrale che, a tutti gli effetti, resta cristiana.
Quindi l’esperimento collaborativo di pace interetnica (questa “opera d’arte” di Stato, come la definiva il Burkhardt), che in tutto questo si riflette, tentato dagli Altavilla, è fatto, e Ruta lo mostra bene, di luci e di ombre. Il prezzo della molto relativa libertà nel regno cristiano è, per gli arabo-berberi, la ǧizya, la stessa tassa che i vecchi regnanti musulmani imponevano ai cristiani ai tempi loro, e che i cristiani hanno fatto propria dopo la riconquista. La partecipazione al potere di pochi musulmani – tipicamente gli eunuchi di palazzo, i gaiti – è controversa ed occasionale, non sistemica, perché accompagnata da condizione di per sé servile. Per importanza demografica, economica, culturale, in Sicilia la presenza araba non era cancellabile – ma non poteva essere una presenza alla pari. I due popoli o etnie, arabi e normanni, erano per molti aspetti agli antipodi – tranne che per una lunga vocazione storica all’adattamento. Perciò dopo tante guerre, e nonostante le tensioni, trovarono un modo di collaborare e convivere: dovevano farlo. In questo stesso giro di anni, poi, si ha tuttavia una massiccia immigrazione di “lombardi” dal Norditalia (e poi Bretoni, Francesi, Normanni) nell’isola, immigrazione che determinerà l’affermarsi di una nuova, dominante componente demografica e soprattutto di un nuovo, importante potentato, un potentato che presto, nella sua espressione aristocratica, si sarebbe opposto a presunti favori elargiti agli arabi dalla dinastia. In questa ultima fase, l’elemento latino reagisce contro quello arabo, e la convivenza interetnica si fa ardua. È uno di quei momenti che a Ruta piace analizzare, perché misurano la tensione tra rapporti politici divisivi ed originaria spinta socio-culturale alla convivenza. Ed è un momento in cui ancora altri rapporti, ed un’altra Sicilia, si palesano.
Su una popolazione stimata di forse un milione e mezzo, infatti, l’arrivo, specie nell’entroterra dell’isola, di forse 150.000 “lombardi” non poteva non avere anche ripercussioni intellettuali, a seguito di stragi e persecuzioni che ebbero luogo in questo contesto: “mentre Toledo, Parigi, Salerno e altri centri intellettuali, con lo sguardo rivolto alla Grecia antica e coeva, alla Persia di Avicenna, alla Baghdad abbaside e all’Egitto fatimide, andavano rielaborando le strategie di fondo dei saperi occidentali, in Sicilia lo scambio interetnico arretrava[…]” – anche contro gli auspici diretti della dinastia.
Sul finire della dinastia degli Altavilla con i due Guglielmi, tra persecuzioni e lotte al vertice, questa decadenza dei rapporti culturali tra etnie, ma non solo, sembrava ormai inarrestabile. E certamente l’Islam diviene ormai, in Sicilia, residuale. Si apre però una nuova era, anch’essa ricca di momenti importanti. L’autore incentra la sua ultima parte sulla figura di quel Federico II che una tradizione sostanzialmente nata col Burckhardt e poi proseguita e.g. col Kantorowicz, indica come sovrano senza pari in Europa. Anticristo per i guelfi, renovator mundi per i ghibellini, Federico II non è stato né l’uno né l’altro, bensì una figura di cui è da riguadagnare la complessità storica, a tutto campo. Un esempio: in nessun libro di psicologia o linguistica manca notizia del bizzarro esperimento scientifico ante litteram “voluto” da Federico: tenere neonati da soli e del tutto privi di cure, per vedere in che lingua parlassero, cioè quale fosse la lingua primeva (ci si sarebbe aspettato l’ebraico). Ora, l’“esperimento” sarebbe stato di orribile crudeltà, se mai fosse stato fatto: si dice ovviamente che i bambini sarebbero morti tutti. Di fatto, si tratta di leggenda sicuramente apocrifa (Carlo Ruta, comunicazione privata). Fiumi di inchiostro sono stati appunto versati per dimostrare la natura crudele e spietata dell’odiato sovrano, con le più varie invenzioni e calunnie. Si cominciò a capire lo Hohenstaufen solo con l’Illuminismo, nel corso di un rivolgimento interpretativo nato col Giannone e culminato con Voltaire e col Burckhardt, che ne rivelò le grandi doti di organizzatore, specie di cultura e d’arte. Con Federico, anche la Sicilia – che non è Cordoba o Toledo, non è Salerno o Parigi – continua nel suo piccolo a vedere qualche interazione culturale positiva tra Normanni e Islam, secondo la cifra che segnò tutto il Duecento europeo. Il mondo della corte federiciana, come Ruta lo descrive, dalla matematica alla poesia alla scienza dello stato coltiva attinenze importanti sia con l’Europa più avanzata sia col mondo arabo. Di queste Federico fu non mecenate né protagonista, bensì “arbitro influente”, supervisore attivo, come sovrano ben consapevole, “su campi aperti interconfessionali, laici e perfino «transculturali», che proprio perché tali diventavano politici” – in particolare polemici ed insidiosi verso il Papato (come i rapporti con un Islam ormai principalmente nordafricano). Ne sono testimonianza la prosecuzione del lavoro di traduzione dall’arabo e dal greco e la collaborazione con gli Atenei di Parigi e Siena. Senza mai trascendere il suo tempo, Federico lo rappresentò al meglio, innovando forse più radicalmente nel campo del sostegno alla nascente lingua letteraria volgare.
Metodologicamente, anche solo proporre questo tipo di sforzo storiografico, quasi “metastorico”,come fa Ruta, è prezioso. Sotto l’evidenza dei fatti politici, può emergere una fittissima trama di culture e di scambi. Le epoche studiate non sono uguali alla nostra, ma la diversa modalità di questo intreccio costante e sempre mutevole, pur nella permanenza della natura umana, è ciò che rende interessante la storia. Un libro come questo lo illustra: il Duecento, tanto diverso da noi, e ciò che lo preparò in effetti sono la base su cui si eleva il presente, dalla istituzione universitaria alla letteratura in lingua, allo stato laico.Carlo Ruta, Il leone e il cammello. Cristiani e musulmani dagli Altavilla a Federico II di Svevia. Quali relazioni?, Palermo, Librimediterranei (Librimediterranei7), Stampa: Universal Book, Rende, Cosenza 2025.