
1… Successe tanto tempo fa, in pieno embargo petrolifero decretato dal ministro saudita Yamani. Ricordo che per potere svolgere il nostro lavoro politico potevamo viaggiare solo con l’autorizzazione scritta della prefettura. Quel giorno stavamo tornando con Joliké dai paesi della montagna agrigentina (quelli che Engels chiamò “terre del socialismo spontaneo”), lungo la SS 118, a pochi chilometri dall’abitato di Raffadali, un ragazzino ci fece segno con la mano. Chiedeva un passaggio. Accostai la mia Ford e lo invitai a montare. Il nostro occasionale ospite poteva avere una diecina d’anni: smagrito in corpo, dal suo visino smunto fuoriuscivano due grandi occhi neri come la pece; dalla testa pendeva un ciuffo di capelli neri tagliati “all’umberto”. Indossava una camiciola a scacchi rossi e bianchi che gli conferiva un aspetto dignitoso, di quella dignità che possiedono solo i contadini di queste parti, dove ancora povertà fa rima con dignità. Feci trascorrere una manciata di minuti quando decisi di metterlo “alla prova” ossia accertare cosa pensasse dei comunisti, lui bambino povero di un paese rosso come Raffadali, meglio nota come “la piccola Mosca” siciliana. Iniziai con una banale domanda, tipica di chi desidera attaccare discorso. “Dove sei diretto?” “A Raffadali” rispose con una vocina esile. “Da dove stai venendo?” “Dalla campagna.” “Sei stato in campagna per svago?” “No” fece pronto, senza aggiungere altro. “Per che cosa allora?” “Sono andato ad aiutare mio padre, a lavorare.” “Perché tuo padre non sa sbrigarsela da solo?” “No. E’ malato.”
2… Lasciai cadere Il dialogo e lo ripresi in tono più inquisitorio, provocatorio. “Ci vai a scuola?” “Si, alla quarta elementare”, rispose. Cambiai di nuovo registro per andare al mio scopo che era quello d’interrogarlo sulla politica. “Perciò, qui a Raffadali siete tutti comunisti!”, attaccai con la tipica ironia degli anticomunisti. “Non tutti sono comunisti”, rispose il bambino, sforzandosi di restare sereno. “Come non siete comunisti?” replicai. “Ci sono i comunisti e ci sono i “democratici”, intendeva dire i democristiani. Una definizione ambigua e assai diffusa che si prestava ad equivoci, poiché faceva passare per democratici anche certi democristiani arruffoni che erano la negazione della vera democrazia. “Va bene, però da trent’anni a Raffadali i comunisti hanno la maggioranza assoluta e fanno il bello e il cattivo tempo. Questo sindaco per esempio…come si chiama.” Finsi di non ricordare il nome. “Totò Di Benedetto “rispose lui con molto garbo. “Si, ora ricordo. E questo Di Benedetto come si comporta, che cosa ha fatto per Raffadali. Quasi niente…” Lo incalzai, sulla falsariga del discorso che di solito fanno gli avversari che non hanno argomenti contro le nostre amministrazioni comunali.
3… Il bambino non rispose. Ripresi la finzione. Era una sorta di sfida con me stesso. Più tentavo di forzare la suscettibilità del piccolo, più nell’intimo speravo che, alla fine, si dichiarasse almeno un simpatizzante dei comunisti. “Allora, questo sindaco ha fatto qualcosa per Raffadali? Si o no!”, ripresi in tono arrogante, dissacrante. “Certo che ha fatto qualcosa”, ribatté tutto d’un fiato il bambino che pareva aver raccolto tutto il suo coraggio per sbattermi in faccia la verità. “E che ha fatto, sentiamo?” “Le strade”. “Bah! Le strade sono state fatte in tutti i paesi”, tentai di metterlo in difficoltà. “E la luce a mercurio”, replicò con più coraggio, sicuro che non avrei potuto demolire questa “modernità”. “Ma che cosa pensi che negli altri comuni si viva al buio?”, lo zittii. “Le scuole, l’asilo, la biblioteca, il villaggio della gioventù…” snocciolò un elenco di verità inattaccabili. Lo bloccai: “Tu vivi in un paese isolato dal mondo. Non sai che cosa c’è negli altri comuni. Altro che Raffadali!” “Io non ho invidia per quello che hanno gli altri comuni. L’importante che anche noi c’è l’abbiamo. E’ giusto che tutti gli uomini vivano bene…” Il ragazzino era un osso duro. Cercai di contrapporgli altri comuni non per spingerlo sul terreno del campanilismo, quanto su quello della contrapposizione politica. “E la villa, la villa ce l’avete a Raffadali?” “Certo. A piano Progresso, dove c’è il castello. C’è pure la fontana con l’acqua illuminata.” “Ma va? Non dire fesserie!” “Non dico fesserie. E’ vero. Ora che passa con la macchina la può vedere. E’ sulla strada.”- ribatté con una disarmante semplicità. “Allora, secondo te, questi comunisti hanno fatto bene o male?” Lo incalzai in tono di aperta sfida. “Bene”, rispose con la sua vocina un po’ più irrobustita. “Allora, tu sei un comunista? Ammettilo!” lo rimbeccai quasi urlando.
4… Seguirono attimi di silenzio. Un silenzio gravido di tensioni e di conflitti. Io attendevo con ansia una risposta affermativa. Lo sollecitai. Finalmente parlò: “Si, la mia famiglia è comunista. Perciò anch’io mi sento comunista.” Emise quelle parole, lente, come un gemito, sgranò gli occhi grandi e mi fissò col suo bel visino pieno di paura, come di chi- avendo rivelato la propria identità- temesse che quell’atto gli sarebbe costato caro. Restò muto come in attesa della mia condanna per la sua fiera ammissione di sentirsi comunista, come il padre e il resto della famiglia. Un vero atto di eroismo il suo, in difesa della “fede” che aveva in corpo. Mi girai verso di lui con un largo sorriso: “Bravo, bravo piccolo compagno. Anche noi siamo comunisti, siamo tutti della stessa idea, della stessa famiglia…” Come incredulo, il ragazzino si sentì sollevato e accennò a un timido sorriso che gli illuminò il viso. Ora eravamo fra compagni e stavamo giungendo a Raffadali, nella nostra piccola Mosca, madre generosa e fiera di una esaltante tradizione comunista. Per provargli la mia sincerità, presi la copia dell’Unità e gliela porsi: “Portala a casa, a tuo papà. Questo è il giornale dei comunisti, dei lavoratori.” “Mio padre non sa leggere, non è andato a scuola” – fece il bambino. “Allora, glielo leggi tu il giornale. Sono sicuro che tu saprai leggerlo bene.” “Mah, insomma. La pagella ce l’ho buona.” “Su prendi il giornale e leggilo anche per te. Ogni comunista deve comprare l’Unità ogni giorno. E’ molto importante…” “Noi non abbiamo i soldi”, quasi scusandosi della loro povertà. “Se non hai i soldi vai alla Casa del popolo e lì potrai leggerla gratis. E’ a disposizione di tutti i compagni.” “Va bene, lo dirò a mio padre”. Eravamo già dentro l’abitato, il sole era ancora alto. “Dove abiti?” “ A u Canali. Al quartiere Canale. Mi fa scendere in piazza…” “No, ti porto a casa, a casa tua, al Canale.”
5… Mi avventurai per le strette viuzze del quartiere, fin davanti la porta della sua abitazione. Prima di scendere gli chiesi il suo nome. Mi rispose come sanno rispondere i bambini: con prima il cognome e poi il nome. Ricordo solo il nome: “Pasquale” che qui il popolo traduce in “Pachinu”. Pachino? Ma quanto è vicino a Pechino! Basta cambiare una vocale. Nella mente mi balenò un altro scenario, in gran parte incognito, che però stava facendo tremare il mondo: la rivoluzione culturale di Mao Tse Tung. Un nucleo di “maoisti” era presente anche a Raffadali. Ma lasciamo perdere Mao e i maoisti. Oggi la bella sorpresa è stata questo bambino compagno, del quale non scorderò mai il suo faccino smagrito, i suoi occhi grandi, penetranti, fieri. Un episodio che fortificò in me la certezza del valore umanitario della nostra Idea universale: da Raffadali al mondo.
(*) P. S. Penso d’inserire questo pezzo in un lavoro che sto abbozzando con lo scopo di raccogliere, e pubblicare, alcuni momenti ed episodi della nostra vita di militanti e di dirigenti del PCI. Per non dimenticare quel che fummo, siamo e speriamo saremo. Per sempre…
Dicembre, 2024.