Ieri sera, durante la proiezione del film presso il Multisala Ciack della Lupo Group, gli spettatori hanno potuto ascoltare il regista Antonio Piazza.
C’era molta attesa da parte del pubblico per l’opera diretta da Grassadonia e Piazza, specie a seguito delle polemiche sorte dopo il rifiuto da parte di Salvatore Vaccarino (figlio di Antonio Vaccarino, l’ex sindaco di Castelvetrano che con Matteo Messina Denaro intrattenne un rapporto epistolare) di proiettare il film a Castelvetrano, paese dello scomparso boss.
Numerosissimi gli spettatori presenti in sala.
A prescindere dalla mistificazione di fatti realmente accaduti (leggi gli articoli 1 e 2 riferiti al trailer), chi ha conosciuto almeno uno dei due personaggi nella vita reale, respirando per anni l’aria castelvetranese, deve condividere almeno uno degli aspetti dell’opera cinematografica, il rapporto tra Matteo Messina Denaro (Germano) e il padre Francesco che emerge dai pizzini scambiati con Vaccarino (nel film Catello Palumbo).
Un infelice principe dai toni shakespeariani, che alterna il ricordo del padre al fatto di non potere egli stesso essere pienamente padre.
Un aspetto umano sul quale giocarono i servizi segreti tramite Vaccarino nel tentativo di ‘agganciare’ il boss.
Una rappresentazione cinematografica assolutamente avulsa dalla realtà, a partire dalla figura di Vaccarino (interpretato da Toni Servillo), autentica ridicola macchietta, combattuto dalle sopraggiunte necessità economiche dovute al suo precedente arresto, vittima del ‘bullismo’ della moglie che lo accusa per ciò che era in precedenza e per quello che è diventato – strumento dei servizi – per finire con una donna che sotto dettatura trascrive i pizzini del boss, arrivando persino a essere suggeritrice dei contenuti di una missiva indirizzata a Bernardo Provenzano.
Sembra quasi che, per attirare l’interesse per il film, si sia reso necessario ridicolizzare una figura nella realtà complessa quale quella dell’ex sindaco di Castelvetrano – accusato a suo tempo da un falso pentito – la cui storia andrebbe contestualizzata in un periodo in cui ben atri interessi minavano le basi democratiche del Paese, rientrando in un progetto politico che ha visto coinvolti attori istituzionali, del mondo dell’economia, ma anche sovranazionali .
Se da un canto l’uso del dialetto è funzionale ad ammantare di realismo l’opera cinematografica, le scene grottesche e ridicole non contribuiscono certo a far nascere una critica nei confronti di una società che vivacchia intorno a un fenomeno che ha enormi interessi nel mondo politico e finanziario del paese.
L’effetto finisce con il rasentare il cringe in quanti abbiano una minima conoscenza dei fatti e dei personaggi reali, rendendo irrealistico un mondo che – purtroppo – continua a esistere a prescindere dalla cattura e dalla morte del boss castelvetranese.
L’unica certezza non proviene dal film ma dalle parole del regista Antonio Piazza, che – precedentemente alla proiezione – alla domanda se avessero avuto timore di ripercussioni, facendo riferimento alla mafia ha risposto di no, ‘perché non gli conviene venire a rompere le palle’, adducendolo anche al fatto che la storia di Matteo Messina Denaro è una storia di trasformazione perché adesso è una mafia degli affari e non conviene più sparare.
Con buona pace dei registi verrebbe da dire che la vera ragione forse sta nel fatto che l’eccesso di ‘fantasia’, unitamente alla mancanza dell’opera biografica, non disturba certo chi continua a reggere le fila o appartiene a un’organizzazione criminale.
Un film che al di là delle ricostruzioni fantasiose ‘liberamente ispirate’ a storie reali (forse anche con aspetti diffamatori nei riguardi di Vaccarino e della sua famiglia, seppur dai toni più sfumati dispetto al trailer), andrebbe visto con la consapevolezza di chi non si sofferma alla finzione cinematografica.
Contrariamente a quanto ci si aspettava non c’è alcun riferimento ai tanti segreti che ancora oggi non trovano risposta, se non l’instillare nello spettatore il dubbio che in realtà non vi sia mai stata alcuna intenzione di catturare l’allora latitante.
Un dubbio che nel film viene indirizzato soltanto nei confronti dei famigerati servizi segreti e non su tutto l’apparato di un sistema che per trenta anni ha protetto la latitanza di Matteo Messina Denaro.
Se il film – pur non essendo assolutamente un capolavoro e seppure ha travisato la realtà dei fatti – dovesse servire ad aprire un dibattito per approfondire determinati aspetti, interessi, collusioni e quanto altro portò al periodo stragista – del quale non si fa cenno nel film – e di ciò che ha significato ‘Cosa Nostra’ in un contesto di ‘sistema’, troverebbe una sua ragione per essere visto da chi in maniera critica è in grado ancora di porsi delle domande che ad oggi non trovano risposta.
Gian J. Morici