Raccontiamo per non dimenticare anche se viene difficile capire certe strategie investigative del passato
Prima parte
Messina Denaro e i soldi
Il grande colpo al Monte dei pegni
Cosa nostra rubò l’oro dei poveri
Pochi ricordano la rapina miliardaria dell’estate 1991 che portò a Messina Denaro e Riina miliardi in oro e gioielli
Autunno 1991. Un’Alfa 164 di colore bianco parcheggia davanti a una gioielleria di Castelvetrano attende. Al volante c’è Matteo Messina Denaro. Comodamente seduti all’interno, Totò Riina e consorte. Prendono un borsone e lo consegnano al gioielliere Francesco Geraci, che cinque anni dopo deciderà di pentirsi raccontando tutto ai PM
Già , perchè solo chi è stato in malafede e poco solare, ha cercato piste che non servivano e disinformando anche su dettatura di certi investigatori. E’ ancora evidente che le casseforti economico/finanziarie che hanno garantito la sua latitanza affondano radici profonde nella terra di chi di finanza se ne intende. Pizzo, traffici illeciti, pervasività nell’economia pubblica sono state costanti economiche di un certo periodo. Il vero “motore” economico di Messina Denaro non è stato mai spento perchè non cercato. I Messina Denaro per anni hanno avuto introiti miliardari grazie anche ai reperti archeologici di Selinunte. Ogni opera d’arte trovata doveva passare dal loro ufficio
La rapina e i soldi da nascondere
Sul piatto degli investigatori, per certificare la sua attendibilità, il pentito Cancemi mise il tesoro del padrino corleonese che si trovava dai Geraci a Castelvetrano. Sotto sequestro finirono gioielli, preziosi e lingotti d’oro che valevano due miliardi di lire. Quello era solo una parte del bottino. Un piccolo regalo per far divertire i soliti Pm molto attenti alle vetrine
I lingotti erano una parte del colpo al Monte dei pegni della Sicilcassa in via Calvi a Palermo. Parlare di rapina sarebbe riduttivo.
Il 13 agosto del 1991 sette banditi sbucarono dai bagni. Gli impiegati erano appena rientrati dalla pausa pranzo. Razziarono l’oro dei poveri, tutta gente che impegnava i regali di una vita. Li portavano al Monte di pietà e ricevevano in cambio soldi in contanti per mandare avanti la baracca. Le polizze di pegno venivano spillate sulle buste di plastica che custodivano i gioielli. Era un modo per tenere viva la speranza, spesso vana, che la merce potesse essere un giorno riscattata. Dal caveau di via Calvi sparì merce per 18 miliardi di lire. Una cifra calcolata per difetto. A parte i lingotti di Riina la refurtiva non è più stata ritrovata. Ripulita finanziando chissà quali affari. Di recente quel mega colpo è tornato d’attualità. Fra gli uomini d’oro che assaltarono il Monte di Pietà c’era pure Francesco Paolo Maniscalco, imprenditore del caffè, già condannato per quel colpo e anche per mafia. I finanzieri della Polizia hanno sequestrato beni per 15 milioni di euro.
A Geraci venne affidato il delicato compito di gestire la cassa di famiglia, che amministrò per anni, custodendo il denaro nel caveau della propria gioielleria.
Ed è proprio lui a raccontarlo in un interrogatorio sostenuto dalla 12.45 del 5 ottobre 1996: «L’episodio nel quale è coinvolto mio fratello è quello che concerne la gestione di “conti” ce io tenevo in gioielleria nell’interesse di Messina Denaro Matteo: il Matteo avendo notato un caveau particolarmente protetto, mi aveva chiesto se potevo custodirgli del denaro in contanti, ed io mi ero messo a disposizione senza alcuna difficoltà. Tale denaro, in pratica confluiva in quattro conti: uno era quello personale di Matteo che ebbe al massimo un saldo di 35 milioni; un altro che ha avuto anche la consistenza di 100-150-200 milioni; l’altro ancora ammontava a 100 milioni e che, come mi disse Matteo, erano soldi di sua madre; un ultimo invece fu fatto in occasione dell’acquisto di terreni, di cui parlerò appresso, di cui la S.V. mi invita a fare. Ero stato io a confidare a mio fratello l’esistenza di quei conti anche per consentire che in mia assenza Matteo potesse effettuare operazioni di deposito o prelievo di denaro rivolgendosi direttamente a lui. Il Matteo veniva assiduamente a compiere queste operazioni, le quali venivano annotate in dei bigliettini in cui sostanzialmente veniva riportato soltanto il saldo e che venivano successivamente strappati. Mio fratello si occupava anche della gestione di questa contabilità ma ero io di fatto che mantenevo i rapporti con Matteo (…) Prima del mio arresto ricordo che il conto personale del Matteo era stato azzerato e ciò in concomitanza con l’inizio della sua latitanza; quello degli “affari correnti”, per così dire, era stato assottigliato (…) Aggiungo che per un certo periodo, sempre tramite il Matteo, anche …omissis…ci aveva portato in custodia 200 milioni che erano dei soldi di cui egli si era appropriato in banca. Mi risulta inoltre che …omissis…si fece custodire una certa somma, forse circa 70 milioni, anche da…omissis…Mi sovviene che ho custodito anche i soldi di…omissis…, circa 20 milioni, che mi furono portati da…omissis».
L’ulteriore passaggio evolutivo di tale rapporto – annota il Gip a pagina 21 del provvedimento – fu l’affidamento a Geraci di numerosi lingotti d’oro (chi, di noi, non ne ha una decina in casa per far fronte a spese improvvise o per dare una mancia al corriere!, nda) e di una valigia piena di monili e oggetti preziosi, beni tutti appartenenti a Totò Riina, consegnati da Geraci agli inquirenti all’inizio della sua collaborazione. «Nella terza occasione – proseguirà Geraci nell’interrogatorio del 5 ottobre 1996 – Riina si presentò nel negozio accompagnato da Matteo, con la moglie e le due figlie, affidandomi una borsa con i gioielli della famiglia perché li custodissi; si trattava di orecchini, monili ed altro che io ho occultato in un nascondiglio segreto nella mia abitazione unitamente ai lingotti d’oro che in un’altra occasione mi aveva portato il Matteo dicendomi che erano di Riina
A proposito di Riina ricordo che per due estati in due occasioni ho fatto fare insieme al Matteo delle gite in barca a tutti e quattro i suoi figli, unitamente alle figlie di Pietro…omissis…e di tale “vartuliddu” di Corleone, entrambi all’epoca dimoranti a Triscina.
Un giorno Messina Denaro Matteo mi chiese se mediante un’operazione “pulita” potevo intestarmi un terreno che da quello che capiì apparteneva alla famiglia mafiosa di Castelvetrano: si trattava di un terreno di tre salme e mezzo (pari a 18 ettari circa) sito alle spalle della grande costruzione di Genco cui si accede da viale Roma. Non sono in grado di dire se quel terreno intestato formalmente a …omissis…di fatto apparteneva già a Messina Denaro Matteo ed ai suoi amici mafiosi oppure se di fatto costoro ne diventavano proprietari a seguito della vendita nella quale io figuravo come formale acquirente. L’acquisto avvenne, se mal non ricordo, tra i 1990 e il ’91 (…) Successivamente alla compravendita, il terreno acquistato da …omissis….fu un compromesso rivenduto ai Sansone di Palermo per la somma di 550 milioni. Il Sansone mi versò 450 milioni in assegni ma prima che saldasse completamente il debito venne arrestato per cui rimase in debito di 100 milioni. Ricordo che si diceva che quel terreno doveva diventare edificabile e che anzi il Sansone doveva realizzare un grosso insediamento edilizio, tipo “Castelvetrano due”; infatti attualmente il terreno vale svariati miliardi. Con il guadagno di 250 milioni previsto a seguito di quella compravendita, il Matteo mi aveva detto che dovevo intestarmi un terreno di Riina…».
Gli anni citati da Geraci sono quelli dove Angelo Siino, il “ministro” delle tangenti dell’affare mafia e appalti a Castelvetrano era di casa e al comune faceva quel che voleva. Sono gli anni in cui parte l’appalto delle fognature di Selinunte e della Saiseb che costerà milioni di Euro all’Ente, per un misterioso contenzioso. In quegli anni , avviene l’auto scioglimento del comune di Castelvetrano, dopo l’arresto dell’ex sindaco Vaccarino. Nel 1993 viene eletto il sindaco Bongiorno. Subito dopo verrà approvato Il tanto atteso piano Regolatore approvato anche dal consiglio comunale ma mai ufficialmente accettato dalla Regione. Entrò in vigore con il -silenzio assenso – Quel PRG dell’epoca consentì investimenti immobiliari per miliardi di lire in varie zone della città. Molti terreni agricoli nella zona verso Santa Ninfa furono lottizzati consentendo forti speculazioni. Il settore vivrà la stessa strategia anche con il successore di Bongiorno. La zona dove era intenzione realizzare “Castelvetrano 2” come il pentito preciserà in altri interrogatori si spostò dalla zona nord della città verso la costruenda zona commerciale e artigianale. L’area dello Strasatto, fino all’approvazione del Prg degli anni 90 era ricca di terreni agricoli . Improvvisamente , molti terreni cambiarono destinazione facendo guadagnare montagne di soldi ai proprietari. Per intenderci è la zona dove Giuseppe Grigoli realizzerà il centro commerciale Belicittà. Costruito da Grigoli considerato prestanome del boss su indicazione di Matteo? Pare di si. E tutte le autorizzazioni come le ha ottenute? Solo Grigoli in quella zona o anche altri sono stati spinti dalla manina di Diabolik? Anche in questo caso .strane dimenticanze investigative non ci faranno capire altro. Il massimo sviluppo dell’area si ha tra il 2000 e il 2014. Nonostante i sequestri, l’area ha visto molti investimenti prendere forma. Anche i cinesi hanno avuto fortuna affittandosi i capannoni sfitti. Strano che una città con neanche 30 mila abitanti abbia visto tanti investitori cinesi aprire e fino al 2024 locando costosissimi locali.
Un business molto ghiotto per i Messina Denaro ben consigliati da Guttadauro uomo d’affari e parente acquisito
E’ evidente che, la famiglia Messina Denaro, non rimase a guardare in tutto il periodo di trasformazione urbanistica. Avevano ricevuto adeguata formazione anche da Filippo Guttadauro che fa evolvere suocero e cognato. I picciuli fannu picciuli e li pirocchi , pirocchi. Gli affari dovevano cambiare. I tanti proventi arrivati dai reperti, dal controllo del settore olivicolo , dagli appalti e dalle rapine dovevano fruttare ancora.
Viene difficile credere il contrario. Avevano miliardi da far girare investivano e si sono serviti di fidati amici per evitare i sequestri. Il Procuratore De Lucia cerca i soldi del boss. Quelli mai trovati. Un pò tardi. Messina Denaro ha avuto molti anni a disposizione per nascondere le sue vere ricchezze. Se non si conosce la storia profonda della città del boss Matteo e di suo padre , rimane un pò complesso trovare la soluzione. Gente brava a fare l’attore se ne trova ancora. Gente che ha fatto soldi e non si sa con quale specifica abilità. Di chiacchere e libri ne sono stati prodotti tanti. Molto fumo e poco arrosto. Il marketing dell’antimafia ha forse aiutato questi furbi.
La classe dirigente di Castelvetrano decise uno strano sviluppo urbanistico che non portava verso il mare ma verso l’entroterra. Perchè?
Resta da capire chi, oggi – a fronte dei tanti prestanome della famiglia allargata già colpiti da provvedimenti di sequestro o confisca – continui, in Sicilia e non solo, a tenere “i conti” dorati dell’ex superlatitante trapanese e della sua “famiglia allargata”.
Fonte: Live Sicilia , documenti24
Il Circolaccio- Ass. Verità e Giustizia
( esiste ancora la voglia di verità vera)