Nel 1914, nel vercellese, ai tempi della mondatura del riso i bambini – ricordo in un mio libro scritto con il sindacalista Raffaele Ferraris titolato “Gli umili figli della terra”, come questi fragili esseri che non hanno toccato ancora il terzo anno di età, che non sono capaci di soddisfare ai più urgenti e volgari bisogni della vita, sono bruscamente lasciati senza cure e senza difese. Essi per lo più, mentre le loro mamme “ad arco le schiene forzate / a dura fatica / lavorano – ah forti sudate / fortuna è nemica/…” girano per le aie coperti solo da un camicino che non sempre arriva all’ombelico, con le tenere carni esposte alle punture d’ogni sorta di insetti… Quegli stessi bambini, diventati un po’ più grandicelli, furono venduti al mercato di Vercelli come se fossero delle bestie. E il pendolo della storia oscilla tra un’apertura sociale e civile e quella della disperazione. Una testimonianza l’ha data Francesco Domenico Guerrazzi ne “Il secolo che muore” (scritto nel 1873) dove egli descrive i momenti cruciali del Risorgimento. “L’Unità d’Italia, egli affermava, nasce con una nazione combattuta tra uomini ingiusti e intriganti e tra coloro votati a pascere una grande speranza: quella di dare a un Paese finalmente raccolto sotto una sola bandiera una nuova struttura industriale ed una comune coscienza nazionale.”Uno Stato nuovo è sorto in Europa. L’Italia da espressione geografica torna a essere espressione politica. L’Europa non esulta. Solo la Gran Bretagna si mostra lieta. Da Roma il Papa lancia scomuniche e anatemi e l’opinione pubblica italiana e internazionale è turbata. Sono molti a credere che si tratti di un’unità nazionale breve. Sembra quasi una predizione d’infausti eventi quella della morte improvvisa di Cavour che avvenne il 6 giugno del 1861 a un anno dall’unità d’Italia. La crisi si manifestò soprattutto nel Meridione con il brigantaggio che da evento endemico e secolare si estese e si organizzò in un vero e proprio moto di rivolta e assunse un connotato politico avendo assorbito, se non altro, gli sbandati e i disertori dell’esercito borbonico. La prima causa, tuttavia, restò la miseria delle plebi rurali del Sud, da secoli abbandonati a sé stessi e che con il Regno sabaudo si ritrovavano con regole nuove e gravate di altri balzelli e dalla coscrizione obbligatoria che in specie in Sicilia era sconosciuta. La repressione impegna per anni la metà dell’esercito italiano dopo l’unificazione delle forze armate dei vari Stati. Le perdite umane da ambo le parti furono elevate. Soltanto nel 1865, con la distruzione spietata delle ultime bande, la situazione si avviò verso la stabilizzazione. L’unità d’Italia restò quindi un momento di forte disagio e sofferenza e le ferite inferte lasciarono a lungo il segno. Per molti intellettuali fu il momento di credere fermamente a uno stato unitario e a dargli il necessario supporto culturale e che significava, soprattutto, riconoscere l’impegno e il sacrificio dei più deboli. Questo richiamo “forte” si avverte nei Giambi ed Epodi quando il poeta denuncia la sterilità e l’ipocrisia degli atteggiamenti assunti dai letterati nei confronti della classe operaia e dell’industrialismo capitalista. (Riccardo Alfonso dal libro “Gli umili figli della terra”)