Il grande depistaggio sulla morte di Borsellino e il caso di Gaetano Murana raccontato dal giornalista Deaglio nel suo libro.
L’articolo su “DOMANI” ne riassume alcune pagine.
Una vicenda che offende la verità e la memoria dei caduti nella strage
SAPREMO MAI LA VERA VERITA?
Il caso Murana non è un classico errore giudiziario. E’ un caso grave di depistaggio di Stato. Come, il potere di apparati occulti dello Stato con la complicità di pentiti di mafia, manipolati da menti raffinatissime, hanno distrutto la vita gente innocente
Per la prima volta, ecco tutta la storia del netturbino Gaetano Murana ingiustamente accusato dell’omicidio di Paolo Borsellino e tenuto in prigione per 18 anni, un estratto da Patria 2010-2020, l’ultimo libro di Enrico Deaglio
Gaetano Murana è un netturbino di 51 anni, accusato dal pentito Vincenzo Scarantino di aver avuto un ruolo chiave nell’omicidio di Paolo Borsellino.
Accusato di strage, viene condannato all’ergastolo e trascorrerà in carcere 18 anni.
La sua vicenda si incrocia con quella di ambasciatori, ambigui generali e uomini delle forze speciali.
Murana, in questo 2010, ha 51 anni. Disorientato, molto magro, molto povero. Solo adesso comincia a farsi vedere in giro: aule di processi a Palermo o Caltanissetta, lo studio del suo avvocato Rosalba Di Gregorio, l’unica persona che – letteralmente con le unghie – l’ha strappato all’inferno. Murana era condannato all’ergastolo e si è fatto 18 anni di carcere, di cui molti a Pianosa, al famoso 41-bis, di cui tutti parlano ancora adesso: legnate e perquisizioni anali, microspie e preservativi dentro la minestra.
Era il 1994, la sera del 17 luglio. Gaetano Murana e sua moglie Antonella erano seduti sul divano del loro modestissimo appartamento nel modestissimo quartiere della Guadagna, a Palermo. Sono sposini, il loro figlio di un anno, Giuseppe, dorme nella culla. Guardano – come tutti gli italiani, anzi come tutto il pianeta – la finale della Coppa del Mondo. Si gioca, nel caldo torrido del Rose Bowl di Pasadena, Usa, la finale tra l’Italia di Roberto Baggio allenata da Arrigo Sacchi e il Brasile di Rómario. Nell’intervallo tra il primo e il secondo tempo (siamo sullo 0 a 0), il Tg5 trasmette un breve telegiornale. Tra le poche notizie, una che fa sobbalzare Murana: «Vincenzo Scarantino, piccolo mafioso di Palermo, ha reso piena confessione e si è autoaccusato della strage di via D’Amelio in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta». «Scarantino! Ma pensa tu!» Murana lo conosce: abita a cinquanta metri da casa sua.
La partita finisce 0 a 0, anche i supplementari finiscono 0 a 0. Si va ai rigori, che, come tutti ricordano, sono infausti per noi.
I coniugi Murana vanno a letto amareggiati. La mattina Gaetano deve alzarsi presto, lavora a tempo pieno, assunto con concorso – all’Amia, nettezza urbana. Esce di casa, sale in macchina; visto che non c’è nessuno fa cento metri in senso vietato e – mannaggia – una civetta della polizia lo ferma. Documenti, Murana pensa di cavarsela con una multa, ma non è così. Arrivano altre volanti, lampeggianti, sirene, sgommate, clacson e in corteo verso la Squadra Mobile della Questura. Murana non capisce cosa sia successo. «Un regalo che ci ha fatto Scarantino», gli dice un agente.
Lo portano nello stanzone della Squadra Mobile, che ha una brutta fama. Gli mettono in mano un foglio con le accuse che gli vengono rivolte: “Strage, l’omicidio del giudice Paolo Borsellino e della sua scorta”. I palermitani del popolo certe volte sono buffi quando nella loro parlata lenta e greve storpiano i nomi importanti. E così a Murana, scappa di dire: «A mia?… Ucciso al dottore Buorselline? Ma che siamo su Scherzi a parte?». E qui gli arriva la prima scarica di legnate.
La prima di una lunga serie. Diciotto anni di galera, accusato dal “falso pentito” Scarantino di aver fatto da staffetta, in motorino, la mattina del 19 luglio 1992, alla Fiat 126 imbottita di tritolo della strage di via D’Amelio.
Che Scarantino fosse falso lo sapevano tutti, che Murana fosse innocente, pure. Ambedue facevano però parte della Storia, un’incredibile storia italiana che continua a scorrere ancora oggi, un po’ nascosta, un po’ affiorante, perché il passato non è mai morto, anzi non è neanche mai passato.
Sembra la trama di un romanzo di appendice. Il primo a comparire sulla scena è un importante ambasciatore.
L’AVVENTURA DELL’AMBASCIATORE
Il 4 agosto 1993 Francesco Paolo Fulci, ambasciatore italiano alle Nazioni Unite, salì sul volo Alitalia New York-Milano per una missione urgente. Secondo quanto raccontato dallo stesso Fulci ai magistrati, si recò all’Hotel Principe di Savoia dove lo aspettava il comandante generale dei carabinieri Luigi Federici. Fu un incontro breve, durante il quale Fulci consegnò al generale, di cui era amico, una lista di 16 nomi. Poi tornò in aeroporto e prese lo stesso volo Alitalia che lo riportò oltre-Atlantico, tra lo stupore dell’equipaggio, il medesimo dell’andata.
Quei giorni erano fra i più tesi e drammatici della storia della Repubblica. Dopo le paurose bombe di Palermo del 1992, l’Italia ora assisteva al bombardamento delle Gallerie degli Uffizi di Firenze e agli attentati di Milano e Roma. Altri attentati erano stati sventati o non divulgati; la sede del governo, presieduto da Carlo Azeglio Ciampi, era stata colpita da un black-out molto minaccioso. A Milano , il presidente dell’Eni Gabriele Cagliari si era suicidato nel carcere di San Vittore, e il potente industriale Raul Gardini era stato trovato con un colpo alla tempia nel suo letto. Il ruolo di ambasciatore alle Nazioni Unite faceva di Fulci il più importante diplomatico italiano in un Paese, il cui principale quotidiano, il New York Times, commentando le bombe italiane, parlava di «clima da colpo di stato» e del coinvolgimento di «servizi segreti deviati». E Fulci qualcosa sapeva: dopo essere stato ambasciatore alla Nato a Bruxelles ai delicati tempi delle rivelazioni su Gladio, l’ambasciatore aveva appena terminato un incarico che era stato per lui molto drammatico.
Cossiga, capo dello Stato, e Andreotti, presidente del Consiglio, due anni prima gli avevano pressantemente chiesto di assumere la carica di direttore del Cesis, l’istituzione che sovraintendeva ai nostri due servizi segreti, Sisde e Sismi. Il biennio passato in quel posto fu, per Fulci, tumultuoso e molto pericoloso. Venne immediatamente minacciato di morte, spiato e intimidito con microspie fino in camera da letto, scoprì che la misteriosa sigla “Falange armata” che rivendicava telefonicamente tutti i fatti di sangue in Italia (oltre che firmare le minacce alla sua persona) lo faceva direttamente dagli uffici periferici dei servizi, e in orario d’ufficio.
Fulci conduce un’inchiesta e fa arrestare per malversazioni miliardarie una potente struttura che aveva conquistato i vertici del Sisde, i cui personaggi sono legati all’estrema destra. Lascia (con proprio grande sollievo) il posto di direttore del Cesis nell’aprile del 1993 per assumere il nuovo incarico all’Onu e prende possesso della sua nuova residenza a Manhattan. Sistemando i libri nella biblioteca, ne mostra uno alla moglie Claris, tra le cui pagine aveva inserito un foglietto: «Se un giorno mi dovesse succedere qualcosa, ricordati di questa lista di nomi».
Erano, ovviamente, i 16 nomi che ora aveva in mano il generale Federici. Chi sono? Sono militari di diverso grado, in forza al Sismi, esperti in sabotaggio ed esplosivo, molti provengono dalla divisione Folgore; formano l’Ossi (Organizzazione speciale servizi italiani), che fa parte della VII divisione del Sismi, con sede a Cerveteri, hanno partecipato, all’estero, ad alcune operazioni molto riservate.
Fulci chiede a Federici di svolgere un’indagine interna «per escludere che queste persone siano state nei paraggi degli attentati alle date degli stessi e rendere quindi onore ai nostri servizi segreti» (è un po’ come dicono i medici coscienziosi: «Facciamo una Tac per escludere…»); ma è con qualche stupore che il giorno dopo, tornato a New York, riceve una telefonata dal presidente Scalfaro che si mostra al corrente di tutto e gli chiede di dare la lista anche al capo della polizia Vincenzo Parisi. L’ambasciatore Fulci provvede, il capo della polizia lo informa di aver incaricato la magistratura di svolgere le indagini con assoluta urgenza.
Immagino che adesso il lettore vorrà sapere tantissime cose: chi erano quei tipacci? Erano davvero loro ad aver messo le bombe? Addirittura c’entravano con la morte di Falcone e Borsellino? O la Tac richiesta dall’ambasciatore Fulci aveva fortunatamente salvato l’onore dei servizi segreti italiani?
E soprattutto: questa spy story cosa a che fare con le vicende del povero Gaetano Murana?
MIO CUGINO NINO GIOÈ
Antonino Gioè detto Nino è una persona importante in Cosa Nostra. Viene dal paese di Altofonte, sopra Palermo, tra i boschi, un posto scosceso di vecchie case dai balconi di ferro, sede di una famiglia, i Di Carlo, che ha i quattro quarti della nobiltà mafiosa. Ha un cugino importante, lui stesso ha buone relazioni, è stato paracadutista nella divisione Folgore. Nel 1993 lo hanno beccato a Palermo, una soffiata: in un appartamento dove si nascondeva, peraltro pieno di microspie. Si è scoperto che è stato lui – materialmente – a sistemare l’esplosivo sotto l’autostrada a Capaci, lo hanno portato al 41-bis a Rebibbia. Dicono che voglia collaborare…Nella notte tra il 28 e il 29 luglio 1993 lo trovano morto impiccato in cella, il corpo accartocciato su un tavolino, tutto il peso è retto dai lacci delle scarpe che ha appeso alla grata della finestra…
C’è una persona che si turba moltissimo alla notizia proveniente da Rebibbia. Un po’ si sente responsabile di quella morte, un po’ pensa che forse la stessa cosa possa succedere a lui. Si chiama Francesco Di Carlo, è il cugino di Nino Gioè, il vero capo della famiglia di Altofonte, trafficante internazionale di droga, da dieci anni rinchiuso nelle carceri inglesi, per aver organizzato un import-export di eroina e cannabis per la bella cifra di 350 miliardi di sterline. Ma Di Carlo è custode di molti segreti e per questo motivo non è al carcere duro; lo tengono nella prigione di Full Sutton, su al Nord, nello Yorkshire, dove ha una certa libertà. Può telefonare, ricevere la posta, spedire lettere, e può anche ricevere visite.
Un giorno del 1988 vennero da lui tre distinti personaggi per una chiacchierata. Due italiani e un inglese, ma parlarono solo quelli che si chiamavano Giovanni e Nigel, il terzo se ne stette molto taciturno. Gli chiedevano, in sostanza, se poteva fare qualcosa per la situazione che si era venuta a creare a Palermo; c’era questo giudice, Giovanni Falcone, che stava esagerando con le indagini… Bisognava fare qualcosa; no, non ucciderlo, ma fargli capire… Conosceva qualcuno di fidato cui rivolgersi? Di Carlo diede il nome di suo cugino Nino Gioè. Tempo dopo Gioè gli fece sapere che aveva incontrato i suoi amici: «Hanno mezza Italia tra le mani, possiamo fare tante cose». Di Carlo rispose: «Sì, fanno favori, però vedi che al minuto opportuno scaricano, stai attento sempre».
Adesso il lettore vorrà sapere chi era quel tipo taciturno che stava insieme a Giovanni e Nigel. O sapere come mai, intorno alle stragi, si addensano liste di nomi di ufficiali paracadutisti della Folgore.
Fonte: DOMANI