Sono trascorsi più di ventisette anni, da quando lo pseudo pentito Vincenzo Calcara è assurto agli onori della cronaca quale l’eroe che avrebbe voluto salvare la vita a Paolo Borsellino. Portato in giro quale vessillo di legalità da mostrare come esempio, in particolare ai giovani nelle scuole, nonostante da tempo la Giustizia, quella con la g maiuscola, lo avesse sepolto con sentenze di condanna per calunnia e diffamazione, sancendo definitivamente l’inattendibilità di un bugiardo conclamato.
Eppure, nonostante ciò, nonostante le tante smentite alle sue dichiarazioni, fino a poco tempo fa quest’uomo riusciva ancora a riscuotere consensi e credibilità.
Era così difficile capire chi fosse questo impostore? Se Paolo Borsellino ne avesse avuto il tempo (Calcara aveva iniziato a collaborare nel novembre del ’91) sicuramente si sarebbe accorto, così come era accaduto per altri, che Calcara era soltanto un delinquente che per godere dei benefici di legge riservati ai collaboratori di giustizia si era inventato tutto. Il tempo non ci fu e Calcara, forse utilizzato da chi tradiva Borsellino e la Giustizia, creduto e osannato da chi non si è posto nessuna domanda, per anni ha continuato la sua messinscena portato sugli altari a imperitura memoria, invitato a convegni, intervistato dai giornalisti, contornato da rappresentanti di associazioni antimafia e persino da qualche ex magistrato.
Eppure, sarebbe stato sufficiente chiedergli perché mai nel 1991 non fece il nome di Matteo Messina Denaro, il quale proprio durante quel periodo organizzava le stragi di Capaci e di Via D’Amelio, per svelare la vera identità dello pseudo pentito.
Lo spessore criminale di Matteo Messina Denaro, già all’epoca, era noto ai componenti della consorteria mafiosa del trapanese. A tutti, tranne che Vincenzo Calcara, il cosiddetto “uomo d’onore riservato”. Calcara non sapeva nulla di “cosa nostra” o omise di fare il suo nome, lasciandolo così libero di pianificare le stragi?
Secondo il collaboratore di giustizia Vincenzo Sinacori, che ha testimoniato il 3 aprile al processo a Matteo Messina Denaro accusato di essere uno dei mandanti degli attentati di Capaci e Via D’Amelio – rispondendo al pubblico ministero – a Calcara nessuno faceva caso perché “si sapeva che era una cosa inutile”. Non sapeva niente di “cosa nostra”.
Eppure, quest’uomo inutile, come lo ha definito Sinacori oltre tanti altri, aveva parlato pure di Matteo Messina Denaro, raccontando di avere avuto l’incarico di uccidere Paolo Borsellino nell’autunno del 1991, quando doveva essere ucciso o con un fucile di precisione o con un’autobomba. Se si fosse dovuto uccidere con un fucile di precisione, doveva essere Calcara a sparare mentre Matteo Messina Denaro avrebbe dovuto fare da copertura, mentre nel caso in cui si fosse fatto ricorso a un’autobomba, avrebbe fatto da copertura lui a Matteo Messina Denaro e agli altri. “Quando parlo di Francesco Messina Denaro – afferma Calcara – è come se parlo di Matteo Messina Denaro è la stessa cosa”. “Anzi, suo figlio è ancora più potente, più astuto del padre e peggio del padre”.
Peccato che questo Calcara non lo disse nel ’91 quando iniziò a collaborare, lo dirà il 13/05/2015, nel corso di un incontro con gli studenti presso l’Istituto Mosè Bianchi di Monza, al quale, tra gli altri, ha preso parte Salvatore Borsellino, fratello del Giudice ucciso. A nessuno è venuto in mente di chiedere come mai non avesse fatto a suo tempo il nome di Matteo Messina Denaro. A raccontare di come lo spessore criminale dell’attuale boss latitante fosse conosciuto già dagli anni ’80, è Vincenzo Sinacori all’udienza del 3 aprile (dal punto 2:13:14 della registrazione dell’udienza) il quale ricostruisce al pubblico ministero i rapporti con i Messina Denaro. Rapporti che con Matteo risalivano già ai primi anni 80.
Sinacori, che racconta di aver commesso omicidi con Matteo Messina Denaro, tra questi ricorda tre persone scomparse a Partanna, l’omicidio di Natale Lala e un altro omicidio a Capo Granitola, precisando come l’attuale latitante fosse già partecipe a fatti di sangue nei primi anni 80, in particolare facendo riferimento alla faida di Partanna – che colloca intorno la metà degli anni ’80 – condotta proprio da Matteo Messina Denaro che aveva coinvolto anche altri mandamenti.
Secondo quanto narrato dal collaboratore di giustizia, Francesco Messina Denaro rimase capo della provincia ufficialmente fino al giorno della sua morte, ma già da tempo, dopo che il padre aveva iniziato a star male, le redini della consorteria mafiosa, sia a livello del mandamento di Castelvetrano, sia a livello provinciale, le aveva prese il figlio Matteo.
Messina Denaro – Identikit
A seguito delle domande poste dal pubblico ministero, Sinacori ricorda di quando egli stesso assunse nel 91, dopo l’arresto di Mariano Agate, la reggenza della famiglia di Mazara del Vallo. Il collaboratore racconta che a causa delle molte lamentele da parte dei mazaresi, nei confronti di Francesco Messina Denaro, parlò con il figlio Matteo, il quale lo rassicurò e lo portò a Palermo dove incontrano Totò Riina, che consegnò a lui e a Mangiaracina la reggenza della famiglia.
Matteo Messina Denaro, dunque, già nella metà degli anni ’80 aveva capitanato la guerra che diede luogo alla faida di Partanna e nel ’91 incontrava Totò Riina per far consegnare la reggenza della famiglia di Mazara del Vallo a Sinacori. Lo sconosciuto – solo a Calcara – Matteo Messina Denaro, era già da tempo ai vertici di “cosa nostra” trapanese
Alla domanda del pubblico ministero se ricordasse dell’omicidio dell’ex sindaco di Castelvetrano Vito Lipari, il pentito dichiara di aver partecipato a quell’omicidio e di essere stato anche condannato per quell’omicidio, precisando che le indagini fatte allora, partendo dalle propalazioni di Calcara, avevano portato all’accusa di altre persone, Mariano Agate e due catanesi, Nitto Santapaola e Mangion, che furono anche arrestati e poi scagionati a seguito delle dichiarazioni di Sinacori.
Ma il vero spessore dello pseudo pentito Calcara, emerge quando, sempre su domanda del pubblico ministero, Sinacori risponde che di Calcara ne aveva parlato con Matteo Messina Denaro e che nessuno (di “cosa nostra” – ndr) faceva caso allo pseudo pentito perché si sapeva che era una “cosa inutile”. Non sapeva niente di cosa nostra, cosa poteva dire se non sapeva niente?
A questo punto, il pubblico ministero chiedeva se le persone accusate da Calcara fossero realmente appartenenti a “cosa nostra”. Lapidaria la risposta di Sinacori, il quale nel non ricordare che Calcara avesse fatto nomi di “uomini d’onore “, precisava che Vaccarino (Antonio Vaccarino ex sindaco di Castelvetrano) non c’entrava niente con “cosa nostra”.
Grazie a un impostore come Calcara – che non fece mai il nome di Matteo Messina Denaro quando iniziò a collaborare – ci sono voluti oltre 27 anni prima che si arrivasse a scoprire lo spessore criminale e il coinvolgimento nelle stragi di Capaci e Via D’Amelio dell’attuale boss latitante. Uno spessore criminale – quello di Matteo Messina Denaro – che emerge giorno dopo giorno dalle testimonianze rese a seguito delle domande da parte del pubblico ministero nel corso del processo di Caltanissetta, dove il boss è imputato per le stragi.
Sulla leggerezza di quanti hanno osannato Calcara, trasformandolo in un eroe da mostrare come esempio, stendiamo un velo. Se aggettivato o meno, lo decidano adesso quei magistrati che non hanno esitato a prendere parte a convegni che vedevano Calcara quale relatore, quei rappresentanti di associazioni antimafia che ne avevano fatto un simbolo e quel codazzo di giornalisti – in particolare quelli che ne hanno scritto di recente – che hanno fatto da megafono senza mai porsi una sola domanda.
Gian J. Morici
Fonte: lavalledeitempli.nethttp://www.lavalledeitempli.net/2019/04/10/vincenzo-calcara-un-impostore-sullaltare/