Dei delitti e delle pene: «Nessuno può chiamarsi reo prima della sentenza definitiva»
L’abile strategia di “uccidere” mediaticamente di certa antimafia, i possibili nemici del loro sistema, prima di sentenze definitive.
Sentenze mediatiche che hanno spostato spesso l’attenzione dell’opinione pubblica, dai veri imbrogli coperti da amici di sistema
Amici dell’antimafia che “attaccavano” la mafia nei salotti ma stanno bene attenti a non disturbare i veri mafiosi che stanno nei palazzi
E venne l’era dei “boia virtuali” al comando di alcuni poteri che si servono dello Stato per discreditare nemici e oppositori
In base a reati, spesso supportati da ragionamenti di diritto molto approssimativi e contro il principio fondante della Costituzione che appunto parla di presunzione d’innocenza.
La verità secondo le intercettazioni è sempre la verità?
Chi controlla la buonafede delle intercettazioni. Si possono fare montaggi con sistemi sofisticati.
L’indagato lo sa solo dopo l’udienza dal GIP cosa hanno intercettato e neanche tutto per intero
IL PM secondo la legge dovrebbe lavorare anche nell’interesse dell’indagato ma non lo fa quasi nessuno
Il sistema Montante apre una seria riflessione
Giudici , i inquirenti molto spesso influenzati dalla stampa di regime e schierati molte volte con partiti di sinistra
Beccaria :“Il giudice non cerca la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto.”
È superfluo di raddoppiare il lume citando gl’innumerabili esempi d’innocenti che rei si confessarono per gli spasimi della tortura: non vi è nazione, non vi è età che non citi i suoi, ma né gli uomini si cangiano, né cavano conseguenze. Non vi è uomo che abbia spinto le sue idee di là dei bisogni della vita, che qualche volta non corra verso natura, che con segrete e confuse voci a sé lo chiama; l’uso, il tiranno delle menti, lo rispinge e lo spaventa.
«Dei delitti e delle pene» è un trattato sul diritto penale e contro la pena di morte scritto da Cesare Beccaria nel 700 . In un’età come quella illuminista, incentrata sull’esaltazione della ragione e segnata dalle radicali riforme culturali, giuridiche e istituzionali in tutta Europa, Beccaria sentì l’esigenza di creare un’armonia precisa e chiara all’interno dei diversi ordinamenti condannando l’ingiustizia del sistema giuridico vigente all’epoca. Beccaria era contrario alla pena di morte e formula, nel suo scritto, alcune argomentazioni ancora oggi attuali.
Beccaria fautore dell’integrazione sociale del reo
“Il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile. Il fine non è altro che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali.
La prima è sull’illegittimità: la vita dell’uomo appartiene solo a Dio, e un giudice non può certamente decidere le sorti di un altro uomo. L’uomo, stipulando un contratto sociale, non accetterà mai una condizione che permetta allo Stato di ucciderlo perché andrebbe contro il fine stesso per cui è nato lo Stato: la protezione e la difesa dei propri consociati. La pena di morte è contraria al diritto naturale e la sua applicazione significherebbe una contraddizione dello stato sociale, sorto per difendere i diritti naturali dei contraenti.
La seconda argomentazione verte sull’inutilità della pena di morte: da una parte non necessaria in presenza di un ordine politico e sociale, dall’altra, colpevole di generare sensazioni intense, ma brevi (Beccaria sostiene che la sanzione riguardi solo le impressioni forti e durature. Si riferisce al carcere).
Una terza argomentazione è da ricondurre alla meditatio mortis: la pena di morte è vana perché la morte è una condizione che accomuna tutti gli uomini. La vera sofferenza e la vera punizione consistono nel pensiero della morte da parte di un vivente. Il filosofo, inoltre, critica la religione poiché essa tende alla redenzione del delinquente attraverso un pentimento capace di assicurargli la salvezza eterna.
Beccaria afferma che le pene debbano svolgere una funzione rieducativa e non repressiva in modo da favorire una sicurezza sociale e un’integrazione sociale del criminale pentito. Il fine delle pene è quello di provocare una forma di coazione psicologica nella mente degli uomini in modo da dissuaderli dal commettere i reati assicurando così una pace sociale. L’autore critica aspramente anche la pratica della tortura perché infligge atroci sofferenze sia ai criminali sia agli innocenti – che per sfuggire a tale supplizio si professano ingiustamente colpevoli – con l’intento di sottoporre il presunto reo a parlare. Beccaria condanna questa assurda pratica perchè l’innocente occupa una posizione disagiata rispetto al reo: l’innocente, una volta assolto, avrà subito un’ingiustizia, mentre se il reo, non confessando, sarà assolto.
Si distingue, inoltre, anche il peccato dal reato definendo quest’ultimo come una realtà terrena legata ad un sistema legislativo concordato dagli uomini. La vera giustizia conclude Beccaria consiste «nell’impedire i delitti e non nell’infliggere la pena di morte».