ROMA – «Armato di due pistole di grosso calibro e di fucile da caccia, montato su una giumenta di pura razza, dalla fiera andatura, accompagnato da due grossi cani da guardia, egli percorreva con aria da dominatore le contrade di Salemi, ottenendo al suo passaggio l’ossequio che nasceva dal timore delle sue violenze». L’eroe descritto in questo mattinale manzoniano del brigadiere Giuseppe Pagano, è Salvatore Zizzo, capo della mafia di Partanna, Santa Ninfa, Castelvetrano, Alcamo e Salemi, ricercato per furto di bestiame, sequestro di persona, estorsione, associazione a delinquere, attentati dinamitardi, contrabbando di stupefacenti, mezza dozzina di omicidi, processato nove volte, sette volte assolto per insufficienza di prove, una per non aver commesso il fatto, un’altra per mancanza di indizi.
La sua è una storia lunga, uguale a tante altre, ormai abbastanza conosciuta. Eppure la commissione d’inchiesta sulla mafia ha ripreso ad occuparsene, la settimana scorsa, sotto un profilo inedito, con una ricerca puntigliosa e comparata delle burrascose vicende della sua vita, così come appaiono riflesse nei rapporti dei carabinieri, nelle denunce della Guardia di Finanza, nelle requisitorie del pubblico ministero, nella motivazione delle sentenze, nelle dichiarazioni e nelle azioni di coloro che gli hanno vissuto accanto o che gli sono passati vicino, il funzionario che gli ha dato il porto d’armi o la licenza di costruzione, il sindaco che gli ha firmato il certificato di povertà, il deputato che ha accettato da lui l’incetta dei voti di preferenza, il figlio della sua vittima che lo accusa e poi lo scagiona. La bibliografia su Salvatore Zizzo, raccolta e ordinata dalla commissione antimafia diventa così, a poco a poco, la radiografia di un’intera provincia della Sicilia occidentale e della sua classe dirigente.
La prima cosa che colpisce, sfogliando la Relazione sul caso Zizzo, è la singolare discordanza delle testimonianze raccolte, il contrasto delle fonti, quasi una vicenda pirandelliana. Abbiamo qui Salvatore Zizzo uno e centomila, un bandito ma forse un benefattore, così come vi pare, un omicida probabilmente, oppure un perseguitato, un uomo di mafia ancora in cerca d’autore.
Gennaio 1929, Salvatore Zizzo ha 19 anni, i carabinieri lo denunciano per rapina, estorsione e omicidio premeditato; un anno dopo la sezione d’accusa di Palermo lo assolve per insufficienza di prove. 1934, 19 febbraio, il giudice istruttore di Trapani emette contro di lui mandato di cattura per tre omicidi, rapine, associazione a delinquere; due anni dopo, lo stesso giudice dichiara non luogo a procedere e ne ordina la scarcerazione. 1939, 30 settembre, lo arrestano i carabinieri di Salemi per furto ed estorsione; due anni dopo il giudice di Trapani lo assolve per insufficienza di prove. 1944, 1945, 1949, furti di bestiame, rapine, associazione a delinquere, qualche volta è fermato, qualche volta resta latitante, è sempre assolto. 1952, 5 dicembre, rapimento e sequestro del figlio del notaio Giuseppe Triolo, tre mesi dopo rapimento e sequestro di una ragazza scambiata erroneamente per figlia del notaio Triolo, assassinio dell’uomo rapito, occultamento del cadavere, mandato di cattura del giudice istruttore della corte d’appello di Palermo, taglia del ministero dell’Interno; 1956, 12 maggio, Salvatore Zizzo è assolto per non aver commesso il fatto. 1957, 29 marzo, assassinio di Giuseppe Martino e Pietro Cordio; il figlio di quest’ultimo, Mario, lo denuncia, racconta minuziosamente l’antefatto, le causali, i preparativi del delitto, l’ha visto lui, insieme ai complici; cinque mesi dopo, dinanzi al giudice, il teste, figlio della vittima, nega, ritira tutto, Zizzo è scarcerato per «mancanza d’indizi».
«Onorevoli deputati», dice il commissario relatore dell’antimafia, «non vi posso comunicare il buon esito di nessun processo. In Sicilia, le Corti, costantemente, hanno dato torto alla polizia giudiziaria, ai procuratori della Repubblica, ai giudici istruttori».
Le Corti? Il commissario dell’antimafia è già ottimista, ma lo sarà ancora per poco. Il 30 marzo del 1948 la questura di Trapani chiede il parere dei carabinieri di Alcamo per un provvedimento di polizia contro Salvatore Zizzo. Il 3 ottobre il maresciallo maggiore Bruno Marzano, da Castelvetrano, esprime parere contrario: «Non risulta», egli scrive, «che Zizzo abbia contratto amicizia con pregiudicati, né è stato segnalato dalla voce pubblica come elemento perturbatore»; (questo Marzano lo ritroveremo in una storia analoga che riguarda Genco Russo). Due mesi dopo, in dicembre, da Trapani si insiste; nel marzo dell’anno successivo Castelvetrano risponde: «Non riteniamo opportuno di avanzare per ora proposta per l’assegnazione al confino». L’11 giugno 1956 il prefetto di Trapani (sono passati sette anni) interviene di persona e ordina l’arresto di Zizzo; il 9 luglio, trenta giorni dopo, il prefetto scrive di nuovo, ha revocato l’ordine di arresto. Il 24 settembre del 1961 la questura di Trapani torna alla carica: lo mandiamo al confino, questo Zizzo? No, rispondono i carabinieri di Castelvetrano.
Il 9 novembre entra in campo il questore, Aristide Andreassi, e scrive personalmente al comandante dei carabinieri, inviandogli un massiccio incartamento a carico di Zizzo. Il giorno dopo, a stretto giro di posta, il colonnello Federico Simo, comandante in capo dei carabinieri di Trapani, gli restituisce l’incartamento, accompagnandolo con un biglietto da visita: «Questa è quella squisita persona di Salemi», scrive il colonnello di suo pugno, «della quale le parlai, e per la quale persone insospettabili, i cui nomi potrò farle verbalmente, mi parlarono prima ancora che ricevessi la sua richiesta. Molto cordialmente». Ecco, ci siamo, gradino per gradino, la commissione antimafia è arrivata alle “persone insospettabili”, sono loro, gli “insospettabili” che dal 1929 al 1962 stanno dietro a Salvatore Zizzo. Chi sono? A questo punto le cose diventano più difficili, le ricerche della commissione antimafia si fanno più complesse. Il questore di Palermo, Melfi, chiamato a deporre, è molto evasivo: «La mafia», egli dice, «è un’organizzazione a scopi pacifisti; i mafiosi agiscono quasi parallelamente alla legge, per dirimere in senso buono ogni controversia».
Eroina a quintali
Il procuratore generale della Repubblica, a Palermo, è un po’ più preciso: «L’attività relativa alle proposte di misure di prevenzione contro i mafiosi», egli dichiara, «sarebbe stata, in passato, oltre che scarsa, ostacolata da interventi di esponenti politici, particolarmente presso i carabinieri». Il verbo è al condizionale, i fatti sono allontanati nel tempo, ma le persone insospettabili che hanno influenza sull’azione dei carabinieri sono più precisamente individuate come «esponenti politici». È il procuratore della Repubblica di Trapani, Carlo Alberto Malizia, che ci parla con maggiore precisione della nostra «squisita persona» e dei suoi protettori: «Salvatore Zizzo», dice Malizia, «è un pericolosissimo pregiudicato e un noto esponente della mafia. Ha costituito una società edile con un altro pericoloso pregiudicato e noto mafioso, certo Giuseppe Palmieri, e ha avuto appalti stradali per centinaia di milioni. Quando il questore ha chiesto il parere dei carabinieri per avanzare una proposta per una misura di prevenzione nei confronti dello Zizzo, la notizia è trapelata, e, per l’intervento di alti esponenti della Democrazia Cristiana, il colonnello Simo, comandante dei carabinieri di Trapani, è stato costretto a dare parere contrario».
Gli insospettabili sono dunque alti esponenti della Dc. Ma i nomi? Le ricerche, ora, diventano difficilissime, l’inchiesta della commissione procede sempre più faticosamente. Per qualche tempo, addirittura si ferma, bloccata da un muro di silenzio. Ad aprire la prima breccia sarà, inopinatamente, proprio Salvatore Zizzo. C’è un nuovo questore, a Trapani, che si chiama Francesco Inturrisi e che interpreta in maniera originale i rapporti dei carabinieri di Salemi. Questi gli scrivono che Zizzo «non dà più luogo a sospetti di manifestazioni criminose, mostra buoni propositi di redenzione sociale, attaccamento alla propria famiglia, e si dedica attivamente al proprio lavoro», Inturrisi trasmette al tribunale di Palermo che gli «risulta che Zizzo mantiene tuttora contatti con pregiudicati della zona» e, senza avvertire nessuno, lo propone per il confino. Il presidente del tribunale inoltra immediatamente la denuncia, prima che qualche “insospettabile” possa intervenire; Zizzo, colto di sorpresa, si dà alla macchia e preme minacciosamente sui suoi protettori; qualcuno di loro, per salvarlo, deve uscire allo scoperto; il sindaco democristiano di Salemi, Vincenzo Ingraldi, citato esplicitamente dall’avvocato di Zizzo come teste a difesa, si presenta all’udienza e depone: «La moralità di Zizzo è irreprensibile», egli dice, «in tutta la provincia egli è molto stimato». Ma questore e giudice tengono duro.
All’alba del 26 marzo 1964 Salvatore Zizzo viene tradotto al confino, a San Giuliano del Sannio. Un altro passo falso: il mafioso scrive al ministro dell’Interno e chiede un sussidio giornaliero di assistenza, i carabinieri di Salemi testimoniano che egli «si trova in grave dissesto economico e finanziario, ha dovuto vendere l’intera sua proprietà per pagare 200 milioni di debiti, i suoi familiari sono poverissimi, non possono mantenerlo al confino». Il sindaco Ingraldi, da parte sua, gli firma prontamente un certificato di povertà. Questa volta è la Guardia di Finanza a non essere d’accordo: Zizzo poverissimo? Soltanto per l’ultimo colpo, 361 chili di eroina, le organizzazioni americane hanno pagato alla banda di Salemi un miliardo e trecento milioni: «Zizzo», dice il rapporto dei finanzieri, «ha simulato volutamente l’asserito dissesto, spogliandosi fittiziamente di una parte dei suoi beni, con la compiacente complicità del fratello e di altre persone disposte a favorirlo». Quanto al sindaco Ingraldi, questi «è in buona posizione economica, ha acquistato a mezzo di prestanomi terreni e fabbricati per un valore considerevole, ha saputo trarre ampio partito dalle numerose amicizie che ha con gli uomini politici di primo piano». Vincenzo Ingraldi, aggiunge un’inchiesta riservata della polizia, non è altro che il nipote di quell’Ingraldi condannato all’ergastolo per il duplice omicidio dei fratelli Perricone, quello stesso delitto per il quale venne denunciato, come capobanda, ma poi assolto, Salvatore Zizzo: il sindaco democristiano di Salemi, benestante e garante, amico degli uomini politici di primo piano, è nipote di uno dei più feroci componenti della banda di Zizzo.
Il caso Giordano
Ridiamo la parola a Carlo Alberto Malizia, procuratore della Repubblica di Trapani: «La mafia estende la sua azione penetrativa su tutte le attività economiche, imprenditoriali, sociali, e anche politiche, intervenendo nelle competizioni elettorali, soprattutto quando si tratta di assicurare voti a questo o all’altro candidato, con lo scopo d’impegnare l’eletto fino al ricatto nella concessione di favore». Non è difficile, scorrendo i risultati delle competizioni elettorali degli ultimi quindici anni, individuare chi sono stati gli elementi più favoriti dall’incetta dei voti a Trapani, a Salemi, a Castelvetrano, a Mazara del Vallo. Un documento, inviato alla commissione antimafia il 26 agosto 1963, specifica dettagliatamente gli interventi elettorali dei “capipopolo” a favore dei deputati democristiani Aldo Bassi, Giuseppe Sinesio, Attilio Raffini, nipote del cardinale, Bernardo Mattarella, ministro del Commercio Estero.
Ma, a questo livello, la materia si fa assai delicata. C’è un capitolo, nel grande libro che sta scrivendo la commissione antimafia, che si potrebbe intitolare Dove si racconta la storia di uomini di polizia curiosi e indiscreti, che si comportarono poco delicatamente e vennero giustamente puniti. Sfogliamolo a caso: ecco un verbale del comando generale dei carabinieri, protocollo B, numero 34, in data 5 settembre 1956; racconta l’incresciosa vicenda accaduta al capitano Renato Ricciardi, addetto al nucleo di polizia giudiziaria di Palermo. Il capitano Ricciardi, si interessa, un giorno d’agosto del 1956, dei funerali di Antonio Cottone, noto capomafia assassinato a Villabate, e va a notare, nientemeno, la presenza, dietro il feretro, del signor Patenè, capo della segreteria dell’onorevole Mario Fasino, assessore regionale ai Lavori Pubblici; anzi, conversando con alcuni funzionari della Regione, qualche giorno dopo, insinua che a quei funerali ha partecipato l’onorevole Fasino di persona. Il senatore Giuseppe Alessi, allora presidente della Regione, e parente di Fasino, chiama nel suo ufficio, l’8 settembre 1956, il comandante della 6ª Brigata dei carabinieri e gli esprime il suo disappunto; il comando generale trasferisce immediatamente il capitano Ricciardi «in altra sede, per evitargli possibile frizione con le autorità locali».
C’è chi rischia di peggio. Il brigadiere Pasquale Giordano della questura di Agrigento, aiuta il sostituto procuratore di Palermo, Luigi Fici, nell’inchiesta per l’affare Tandoj. Si scoprono cose «agghiaccianti», com’è detto nella relazione della commissione: la questura di Agrigento non ha consegnato all’autorità giudiziaria «un considerevole numero di documenti» e «ha fabbricato, in un periodo successivo, una deposizione secondo la quale uno degli arrestati era claudicante» (cioè, hanno arrestato un poveraccio innocente, un certo Calasciola, si sono accorti che è zoppo, e hanno fatto dichiarare ad uno dei testimoni d’aver visto un uomo zoppicare sul luogo del delitto).
Parlamento e mafia
Orbene, il procuratore Fici se ne torna a Palermo e manda per aria tutta la falsa costruzione del questore di Agrigento; questi prende il brigadiere Giordano, rimasto sul posto per indagare su un misterioso furto di sei milioni perpetrato nei locali stessi della questura, e lo accusa d’essere «un protettore della mafia». «Sono dovuto intervenire», dichiara innanzi alla commissione il giudice Fici, «e fare un rapporto per testimoniare a favore del Giordano e per dimostrare che tutto quello che è avvenuto era soltanto la conseguenza di un esasperato spirito di corpo da parte del questore».
Un altro rapporto, redatto dal tenente Mario Malausa, tragicamente perito nella strage di Ciaculli, rimane misteriosamente segreto per due anni; ora che finalmente è arrivato nelle mani della commissione antimafia (documento 108, scritto il 22 marzo 1963) sappiamo perché: Francesco Greco, uno dei mafiosi della banda di Ciaculli, «vanta aderenze e amicizie alla Regione, alla prefettura, alla questura e in molti altri enti statali»; Baldassare Mottisi «è iscritto alla Democrazia Cristiana e con tale lista venne eletto consigliere comunale di Palermo, si serve di tale carica per spalleggiare i fratelli Pietro e Giuseppe, noti pregiudicati mafiosi»; Giuseppe Gagliardo, mafioso, «aderisce alla Dc con lo scopo evidente d’ottenere favori e protezione»; Pietro Buffa «possiede terreni e fabbricati di notevole valore, fra cui un grande fabbricato in via Loreto, che ha ceduto in affitto alla questura di Palermo, la quale lo ha adibito a garage». E così via.
Mafiosi in questura, mafiosi nella banca, mafiosi in Comune, mafiosi alla Regione, mafiosi capi-elettori, mafiosi, soprattutto, nel partito dominante. «La mafia può conquistare tutto», conclude il senatore Alessandro Morino, relatore sul caso Zizzo, «credo che sia venuto il tempo di guardare in faccia i mafiosi, di farli accompagnare in quest’aula, per far loro sentire che almeno il Parlamento, il presidio della libertà, non può essere una futura conquista della mafia».
Fonte: L’Espresso
Il Circolaccio