
Il secondo quotidiano italiano, La Repubblica, attraversa una profonda crisi, certificata dall’inarrestabile emorragia di copie: le tensioni, latenti sin dall’avvicendamento alla direzione tra Ezio Mauro e Mario Calabresi, sono recentemente esplose con la diatriba che ha pubblicamente contrapposto Eugenio Scalfari, “il fondatore”, a Carlo De Benedetti, “l’editore”. Circola addirittura la voce che l’Ingegnere voglia liberasi del giornale. Le disgrazie di Repubblica sono da collegare alla crisi dell’area politica di riferimento, quella sinistra “liberal” di cui il quotidiano romano è stato il padre nobile. Il progetto “La Repubblica” nasce, infatti, negli ambienti atlantici, per traghettare la sinistra dall’ideologia sovietico-marxista a quella atlantico-liberale: breve storia non ortodossa, dal “gruppo del Mondo” all’attuale crisi.
I “liberals” sono in crisi. Il loro giornale-partito, anche
Il crepuscolo della Seconda Repubblica avanza minaccioso e non è certo casuale che sia accompagnato dalla crisi del quotidiano che, senza dubbio, ha dominato questo periodo della storia italiana, La Repubblica. Il quotidiano romano nasce, infatti, nel 1976 (vedremo, nel proseguo dell’articolo, in quali particolari “circostanze”) per affiancare L’Unità, quotidiano ufficiale del Partito Comunista e sensibilizzare Botteghe Oscure sulle tematiche “liberali”; cavalca nei primi anni ‘80 il caso P2; assiste l’assalto giudiziario che nel 1992-93 demolisce la Prima Repubblica; assume la funzione di mentore della sinistra post-comunista, traghettandola nella metamorfosi PCI-PDS-DS-PD; detta l’agenda al governo, se la sinistra vince le elezioni, guida l’opposizione antiberlusconiana, se le sinistra le perde. Assumendo la funzione di giornale-partito, Repubblica segue così le fortune dell’area politica di riferimento: patisce il governo Monti, si smarrisce con quello Letta, affonda, svelato il bluff iniziale, con l’esecutivo Renzi e si sfalda con quello Gentiloni.
La diffusione “cartaceo+digitale”, che nel 2011 si attesta ancora attorno alle 425.000 copie, cala così alle 315.000 dell’autunno 2015, quando Ezio Mauro, direttore sin dal 1996, cede la poltrona a Mario Calabresi, in arrivo da La Stampa. L’avvicendamento, prodromo del matrimonio tra L’Espresso ed un altro gruppo editoriale “liberal” per eccellenza, l’Itedi degli Agnelli-Elkann, non porta fortuna: la diffusione subisce un nuovo tracollo, calando sino alle 210.000 copie dello scorso autunno: in redazione sono forti i malumori nei confronti del neo-direttore, forse non del a ragione, considerato che Calabresi ha l’ingrato compito di “coprire” gli impopolari esecutivi Renzi e Gentiloni. Le tensioni accumulatosi dentro il quotidiano debordano in pubblico nel gennaio 2018, con il velenoso confronto a distanza tra “il Fondatore”, Eugenio Scalfari, e “l’Editore”, Carlo De Benedetti: una considerazione politica del primo (“Preferisco Berlusconi a Di Maio”) incendia le polveri, spingendo il secondo ad una velenosissima replica (“Scalfari? Un signore molto anziano che non è più in grado di sostenere domande e risposte”). Il Fondatore mena l’ultimo fendente: “Credo che quell’accusa di avere speculato grazie alle informazioni riservate ottenute da Renzi abbia avuto un ruolo importante nel suo cattivo umore. (…) De Benedetti ama Repubblica, ma vuole liberarsene
Imputare l’emorragia di copie al direttore Calabresi, oppure alle più generalizzate difficoltà dell’editoria e della carta stampata, come fatto da Scalfari, o alla “perdita d’identità” di cui parla De Benedetti, è superficiale. Il Corriere delle Sera, concorrente per eccellenza, ha superato più brillantemente gli ultimi anni, perdendo solo un terzo della diffusione totale (dalle 470.000 copie del 2011 alle 310.000 dello scorso anno). La Repubblica vive una crisi strutturale perché la sua funzione storica, quella di essere il giornale-partito che inspira e guida la sinistra “liberal”, è esaurita, causa collasso della sinistra stessa: le prossime elezioni, infatti, certificheranno la caduta ai minimi storici del PD, incapace ormai di intercettare due categorie chiave dell’elettorato di sinistra, “giovani e lavoratori”, disperse tra Movimento 5 Stelle, astensionismo e partiti di destra. L’Ingegnere, cui non manca il senso per gli affari, ha probabilmente fiutato che il destino di Repubblica è segnato e perciò medita, nell’intimo, di sbarazzarsene.
Le rotative della Repubblica sono in funzione dal 1976: hanno egregiamente adempiuto al loro compito, forse sarà presto ora di spegnerle.
Ma come è nato questo giornale-partito che, affiancando l’Unità, ha progressivamente acquistato la guida della sinistra, spostandola dai valori marxisti a quelli liberali? Chi è Eugenio Scalfari, ormai considerato da tutti soltanto un vegliardo che ama vantare le sue conoscenze con papa Jorge Mario Bergoglio e col direttore della BCE, Mario Draghi? Chi ha messo i soldi per l’avvio del settimanale L’Espresso e poi de La Repubblica? Perché, alla fine negli anni ‘80, è entrato nell’azionariato del quotidiano il finanziere De Benedetti, che ha giocato un ruolo di primo piano nel saccheggio dell’economia nazionale? Perché, infine, La Repubblica è sempre stata la punta di lancia di tutte le operazioni euro-atlantiche contro il nostro Paese, da Tangentopoli agli attacchi all’ENI, dal Rubygate al caso Regeni? Per rispondere a questa domanda, bisogna scrivere una breve, ma puntuale, storia del quotidiano romano: una storia, ovviamente, non ortodossa. Per fare ciò, ci serviremo di una preziosa fonte di informazioni: “La sera andavamo in Via Veneto. Storia di un gruppo dal Mondo alla Repubblica”, scritto dallo stesso Scalfari e edito da Mondadori nel 1986. È un libro che spiega “tutto”, purché si abbia la giusta chiave per decifrarlo.
La semi-autobiografia di Scalfari racconta le gesta, lunghe un quarantennio, del gruppo di “liberals”, alias “liberali”, alias “radicali” che, nell’immediato dopoguerra, si fa rappresentante degli interessi dell’establishment atlantico, quello basato sull’asse Londra-New York. All’indomani delle elezioni del 1948 l’Italia, infatti, è dominata dal bipolarismo DC-PCI: la fedeltà del Partito Comunista a Mosca obbliga l’establishment atlantico a sostenere la Democrazia Cristiana, ma è un’alleanza forzata. Questo partito cattolico di massa, un po’ terzomondista e molto statalista, non è certo in sintonia con l’oligarchia atlantica: ebraica o protestante, ovviamente atlantista, convinta sostenitrice del libero mercato e delle libertà individuali (divorzio, aborto, droghe, etc.). Il grande disegno dell’establishment liberal è quindi di insinuarsi nella sinistra italiana, fagocitare progressivamente il PCI e, una volta conquistato, spostarlo su valori “atlantici e liberali”: l’operazione, che parte nel 1955 con la nascita del Partito Radicale, si conclude con pieno successo nel 1991, con la nascita del Partito Democratico di Sinistra. In questa manovra, gioca un ruolo decisivo Eugenio Scalfari ed il suo gruppo di “liberals”: a loro va imputata la paternità del Partito Radicale, del settimanale l’Espresso, del quotidiano La Repubblica.