L’art.338 del Codice penale era pressoché sconosciuto, di esso avevano contezza solo giuristi ed operatori di giustizia, fino a che non è entrato a vele spiegate nella storia – politica e giudiziaria – del nostro Paese grazie all’inchiesta della Procura di Palermo, che ha condotto sul banco degli imputati cittadini di rango – ufficiali dell’Arma dei carabinieri, ex Ministri – e alcuni gaglioffi accusati di “violenza o minaccia a un corpo politico amministrativo o giudiziario”.
Il fatto che nessuno, o quasi, fosse a conoscenza dell’art.338 del codice non deve rammaricarci più di tanto. E’ la prima volta che il reato va in scena in un’aula di tribunale in Italia. Ed è anche la prima volta che “trattare” con boss mafiosi o semplici delinquenti sia divenuto un reato. Non perché di trattative non si sia avuta conoscenza – non c’è giorno che autorevoli rappresentanti delle istituzioni e dello Stato – “trattano” con canazzi di bancata e colletti inamidati senza che accada nulla. Solo che stavolta la trattativa ha aperto una breccia nel corpo politico dello Stato (il governo, in realtà organo costituzionale) nei giorni della mattanza dei suoi servitori, indebolito la sua autorità, consegnato nelle mani di mammasantissima temutissimi uno strumento di ricatto formidabile e messo in pericolo la vita di magistrati.
Stando così le cose la trattativa, merce di consumo per arruolare pentiti (veri ed falsi), collaboratori e confidenti, da peccato veniale, necessario per raggiungere utili obiettivi di giustizia, guadagna il rango di peccato mortale. E’ la partecipazione, attiva e formale, della magistratura inquirente, assente nelle trame “ordite” dagli alti ufficiali dei Carabinieri per conto di importanti rappresentanti delle istituzioni, a fare la differenza.
L’art.338 si è trasformato nella pietra angolare della costruzione di un impianto giudiziario, grazie al quale lo Stato “buono” processa quello cattivo. Finalmente. La trattativa, pietra dello scandalo, non è stata ammessa nemmeno da coloro che la frequentano per dovere di servizio nella quotidianità.
Sia la pubblica accusa quanto il collegio di difesa hanno ignorato l’art.54 del codice penale, che tutela chi agisce in stato di necessità al fine di salvare persone da un pericolo grave ed incombente. Non è l’arcinota legittima difesa, ma qualcosa che gli assomiglia e che avrebbe dovuto far capolino. Invece niente. Un enigma.
Se la trattativa si fosse svolta per evitare nuove stragi e salvare la pelle dei più esposti, come Calogero Mannino, l’omissione delle sue motivazioni avrebbe fatto mancare alcune frecce all’arco dell’impianto difensivo. Evidentemente si è confidato nella negazione della trattativa, che avrebbe avuto come “pontiere” Ciancimino, padre e figlio (non colpevole su questo punto per la Corte). La strategia difensiva aveva dato buoni frutti peraltro, come dimostrano le assoluzioni incassate dal generale Mori, dal colonnello De Donno, e da Calogero Mannino, vittima predestinata dei corleonesi.
La sentenza di condanna va accolta con rispetto. Per spiegarla c’è chi si arrampica sugli specchi, chi la giudica il trionfo della giustizia, e chi ci vede l’occupazione della storia, della morale e della politica da parte della magistratura. Non solo e non tanto l’indipendenza delle toghe, affermata al massimo livello, ma un rango più alto rispetto agli altri poteri dello Stato.
Caricato di molte aspettative e motivazioni, la sentenza di Palermo distribuisce dosi esagerate di trionfalismo e veleni. I più disincantati e scettici sostengono di non essersi sorpresi per le condanne comminate agli imputati. Un processo di durata biblica, quasi cinque anni, che si fosse concluso con una assoluzione plenaria, avrebbe destabilizzato il Palazzo di Giustizia, impegnato alla spasimo nella battaglia per il trionfo della verità. Processuale, s’intende.
Fonte : Sicilia informazioni
Il Circolaccio