Dunque, il tutto comincia – ma in verità era iniziato molto prima – dal Papeete, che non è il capoluogo della Polinesia francese, ma quel posto dove tra un mojito e l’altro, tra chiappe danzanti sulle note di Fratelli d’Italia, e sotto la sferza della calura, ognuno si gioca quel che può.
Chi la consumazione, chi le mutande, chi i ministeri.
Tra questi ultimi, o meglio soltanto quest’ultimo, l’ultimo – perdonate le ripetizioni – autoproclamato Vicerè d’Italia, quello con la testa sempre ai turchi (Arrivano li turchi! Ricordate l’allarme lanciato dalle torri d’avvistamento appena sull’orizzonte si vedeva una vela saracena?) che non rendono solo piccioli (soldi) a chi ci specula su, ma anche tanti voti a chi specula al contrario.
“Per un cornuto un cornuto e mezzo”, pensò qualcuno.
E cadde un governo!
Il conte, nominato tale dalla dea Fortuna, fa il salto del grillo, e dall’alto del suo carisma, aiutato dalle stelle, in un suo memorabile discorso asfalta l’erede di colui che ce l’aveva duro, gridando: “Fermo gioco, qui o si fa l’Italia o si muore!”.
Il popolo, pronto più a toccarsi i cabbasisi (come Montalbano indica i monili di famiglia sui quali fare gli scongiuri) che a morire, urla in coro: “Facciamo l’Italia!”.
Il punto della questione era sempre quello: Morto un papa se ne fa un altro (non ce ne voglia Papa Francesco, è solo un modo di dire) o si va al voto?
“Al voto! Al voto!” gridavano pure quelli che di andare a nuove elezioni non ne volevano proprio sapere.
E all’ombra di “Fratelli d’Italia” (nome sempre azzeccato, come gridare “Forza Italia” che sa tanto di tifo allo stadio) compariva una stella cometa – una sola, non cinque – che era pronta a guidare i nuovi re magi, rigorosamente italiani, non si sa dove né come.
San Giorgio, quello di Napoli, non c’era più, ma anche se ci fosse stato nulla sarebbe cambiato, e il drago fece la parte del leone.
Forse è un po’ sminuitivo, ma non fa nulla, rende lo stesso l’idea.
Dall’altra parte, dove non si sa, i piddini, in eterna lotta con gli eredi della corona (pertanto detti sovranisti), incapaci finanche di darsi un nome facile da urlare dagli spalti dello stadio, avvezzi alla spartizione delle poltrone sottraendole a chi spartiva divani e comode camere da letto (non siate birichini, non pensate a male), tacevano come sempre.
Come da decenni avevano fatto, guardandosi le mani per capire quale fosse la destra e quale la sinistra.
Noblesse oblige, pensò il conte, che contando (del resto era un conte, quindi contava) sull’opportunità degli altri di non fare cadere il governo, punse le natiche del drago, il quale altro non aspettava per sottrarsi a un compito ingrato – e forse anche per volare in futuro più in alto – lasciando il popolo a rosicchiarsi le unghia, arrovellandosi nell’eterno dilemma del bivio senza segnaletica: “Vado a destra o a sinistra?”
Poiché, però, tutte le strade portano a Roma, qualunque fosse la scelta la destinazione finale era la Suburra con i suoi lupanari.
Partì così la campagna elettorale, con i toni del peggior postribolo.
“Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello!” – disse Dante nell’udire gli slogan dei contendenti, senza programmi, senza idee, ma facili all’insulto.
Nel frattempo il popolo, tra un tuffo e l’altro nell’azzurro mare di luglio, pensava: “Calati juncu ca passa la china” (Piegati giunco che passa la piena), unica soluzione alle avversità per chi abituato ad affrontarle rimanendo sempre piegato a 90°.
Il quadro era già bello, ma vedere così tante chiappe offerte al vincitor (chiunque esso fosse) non poteva che rendere l’idea di un’Italia come un immenso edificio delle Terme Suburbane di Pompei, con i suoi affreschi e l’iscrizione: “Si quis hic sederit, legat hoc ante omnia: si qui futuere volet, Atticen quaereret”.
Si arrivò così alla situazione attuale.
I piddini urlano “traditori” alle stelle.
I forzisti, recitano l’Eterno riposo ai “traditori” interni, che a loro volta si sentono traditi.
L’ultima fiamma del leader forzista dedica le parole di una nota canzone di De Andrè, che fa riferimento ai nani, ad un ministro “traditore”.
Un’ex fiamma del leader , se vincessero i sovranisti, si dichiara pronta a lasciare l’Italia.
L’ex ministro del Papeete controlla se gli avversari sudano o meno, dichiarando quanto lui stesso suda (che schifo!).
L’astro nascente dei Fratelli d’Italia, ma anche dei cugini, dei lontani parenti, e persino degli amici e conoscenti, si accapiglia per la corona.
Tra i grilli le cicale, che non sono quelli della canzone Samarcanda di Vecchioni, sembra bruci nella gola di tutti vino a sazietà.
E mentre l’associazione Alcolisti Anonimi offre a tutti da bere purchè la smettano di tirarsi i capelli e rompere i cabbasisi agli italiani, qualcuno ricorda la frase di Marlene Dietrich, “Una nazione senza bordelli è come una casa senza bagni”.
Sarà anche vero, ma questa nazione è diventata una casa senza stanze e di soli bagni…
Gian J. Morici