Il giurista ed ex presidente della Camera: «Mai come in questo momento è necessaria una discussione ampia nella quale siano coinvolti tutti gli attori della giurisdizione. Per cambiare giusta l’intesa toghe-avvocati»
Stop alle «concezioni proprietarie» della giustizia, che hanno portato a situazioni insostenibili come quelle che sta vivendo il Consiglio Superiore della Magistratura. Sì al dialogo e al rapporto costruttivo tra magistrati e avvocati: non solo antidoto alle degenerazioni di cui sopra ma unico metodo giusto per affrontare e superare i nodi della giurisdizione. E’ duplice la ricetta che Luciano Violante – giurista, ex presidente della Camera – propone per superare “l’ora più buia” della magistratura, come l’ha definita il presidente dell’Anm, Pasquale Grasso.
Ma l’analisi di Violante non riguarda solo il pianeta- toghe: la fase che il Paese sta vivendo è difficile e complessa, e merita una riflessione profonda e accurata. «Si è determinata una sorta una frattura – osserva Violante – di tipo orizzontale tra ceti dirigenti che per comodità espositiva possiamo chiamare “gruppi riflessivi”, e il resto della società italiana. Questa separazione è rimasta ad incubare nel profondo della società ed è diventata visibile solo quando è esplosa grazie all’azione dei Cinquestelle soprattutto, e della Lega.
Due soggetti politici che hanno fatto leva sul rancore scagliandosi contro i “gruppi riflessivi”, bollandoli come elités, classi che hanno utilizzato le proprie funzioni ed il proprio potere per arricchirsi, trarre vantaggi privati eccetera. Il tutto contro il resto della società italiana che dunque ha pagato lo scotto di tali comportamenti. M5S e Lega si sono posti come rappresentanti di un simile sentimento calamitando il consenso in modo diverso rispetto ai partiti tradizionali che al loro interno avevano stratificazioni di tutti i gruppi sociali in modo “verticale”. Stavolta invece è successo che tutti quelli che avevano del rancore nei confronti dei “gruppi riflessivi” si sono addensati su quelle due forze politiche.
Tuttavia, presidente, questo modo di raccogliere consenso “orizzontale” va a detrimento dell’azione di governo. Il rancore non è un politica, così come la percezione non è la realtà.
Vede, ciò che colpisce è il fatto che gran parte dei media si affannano a raccontare e delineare crisi politica, economica e quant’altro, ma tutto ciò non incide sul livello di rappresentatività e di adesione delle attuali forze di governo, il cui consenso resta stabile oltre il 50 per cento. Forse in futuro la situazione cambierà: però allo stato gli allarmi veri o presunti appaiono comunque ininfluenti. Quando in una società si realizza una rottura netta, con un pezzo che va contro l’altro, il dato di crisi diventa assai più profondo di quanto appaia perché coinvolge la coesione stessa della società. E la colpa è di chi non ha ritenuto che bisognava ritessere la tela dei rapporti tra politica e ceti emarginati, deboli, non protetti.
Ma se è così, questa frattura rischia di diventare irreversibile. Perché quelli che si sono intestati la rappresentanza della rabbia non riescono a governare, come vediamo. E i gruppi riflessivi si sono ritratti e non riescono a riconquistare un ruolo da protagonisti. Dunque?
Nel mondo politico, salvo rarissime eccezioni, nulla è irreversibile. Proprio il fatto che ci sia rottura sociale fa sì che gli allarmi di crisi vengano espressi solo dalle classi medio- alte mentre tutti gli altri ritengono che la crisi sia colpa di qualcun altro: dell’Europa, di chi ha governato prima, eccetera. Di conseguenza, io che rappresento il rancore dico ai miei seguaci che se le cose non girano non è perché sto governando male ma perché un nemico esterno rema contro. Il meccanismo di rappresentanza del rancore comporta sempre la necessità di individuare un “nemico” contro cui scagliarsi. Altrimenti il rancore finirebbe per scaricarsi sulle forze che ne sono vessillifere in quanto incapaci di risolvere i problemi.