Anche Don Ciotti fondatore di Libera a Palermo, in occasione del 23 maggio, ha ribadito : “ basta parlare di antimafia
E il noi che vince. Bisogna smettere di parlare di antimafia perché a parole tutti sono contro la mafia ma essere contro la mafia dovrebbe essere un fatto di coscienza non una carta d’identità. Bisogna parlare di responsabilità, di persone che non si commuovono solo ma che si muovono di più insieme”.
La lotta al mafiosismo deve unire tutti coloro che intendono dare un vero futuro di libertà a ragazzi di questa terra. Il neologismo “mafiosismo” intende evidenziare tutti i comportamenti che hanno formato il fare mafioso e l’uso devastante di queste procedure. Chiunque mette l’arroganza, la violenza e la prepotenza nella gestione del suo potere o della sua azione professionale, cercando di schiavizzare gli altri per interessi politici , economici e di carriera è mafioso. Chi ruba la verità per proprio tornaconto e senza scrupoli è mafioso.Chi uccide le persone, anche senza usare pistole per interesse e per ambizioni personali è mafioso. Chi mistifica per nascondere la verità è mafioso perchè sa di “uccidere ” in qualsiasi maniera per diventare più forte
Da un articolo di Davide Grassi
Quando decisi di entrare a far parte dell’associazione nazionale antimafia e di difendere le vittime di usura e di estorsione non lo feci per una questione economica. Decisi di rendermi utile, come una qualunque persona che si sente di mettersi all’opera per un fine sociale. Non chiesi mai un rimborso spese per l’attività svolta per conto dell’associazione o delle vittime né utilizzai quella strada per la mia personale carriera.
A Milano, durante il processo “Infinito”, l’avvocato di un boss di ‘ndrangheta mi accusò non tanto velatamente di essere uno di quei “professionisti dell’antimafia” che faceva parte di un’associazione dedita al “turismo giudiziario”.
Mi venne data l’opportunità di replicare ovviamente. Il collega aveva inoltre sollecitato la mia memoria.
I ricordi di Leonardo Sciascia
Quando uscì l’articolo di Leonardo Sciascia dal titolo ‘I professionisti dell’antimafia’ sul Corriere della Sera era il 10 gennaio 1987 ed io avevo appena 11 anni. Ancora la mia adolescenza non era “distratta” dalla lettura dei quotidiani. Di quello che narrò lo scrittore siciliano de ‘Il giorno della civetta’ ne sentii parlare negli anni successivi anche per le differenti analisi e i più disparati utilizzi che ne fecero giornalisti e uomini politici.
In molti non capirono, o fecero finta di non capire, il senso di quell’articolo. Sciascia, che del fenomeno mafioso era profondo conoscitore quando scriveva di “professionisti dell’antimafia” intendeva riferirsi a coloro che usavano l’antimafia per costruirsi una carriera in politica o in magistratura. Ma poiché Sciascia in quell’articolo evocò l’assegnazione di Paolo Borsellino alla Procura di Marsala, superando nella graduatoria colleghi più anziani di lui ma che non si erano mai occupati di processi di mafia, fece un esempio che lo espose a molte critiche. C’è chi credette, erroneamente, ad un attacco personale al magistrato ucciso nell’agguato mafioso di Via D’Amelio qualche anno più tardi, e non glielo perdonò.
Ma la chiave di lettura dell’articolo di Sciascia, che non riguardava il caso di Borsellino, era un’altra e, nonostante siano trascorsi ben trent’anni, oggi è ancora attuale: c’è chi usa l’antimafia per fini esclusivamente personali, per cercare un consenso per sé nella logica di una assoluta autoreferenzialità.
In un’intervista che rilasciò qualche giorno dopo l’uscita del tanto contestato articolo, su Il Messaggero Sciascia ritornò ancora sull‘argomento: “Ieri c’erano vantaggi a fingere d’ignorare che la mafia esistesse; oggi ci sono vantaggi a proclamare che la mafia esiste e che bisogna combatterla con tutti i mezzi”.